È difficile pensarlo oggi, con le auto che sfrecciano rombando sulle strade, con la televisione, le radio, i telefonini e tutto un mondo di rumori che ci circonda e ci assorda, ma un tempo erano giorni di silenzio, questi.
Dalla cattedrale di Novara fino all’ultimo oratorio di campagna; dalla basilica dell’isola di San Giulio alle chiese della Valle Strona si oscuravano le luci, si indossava il lutto e le campane venivano legate. Per dare il segno del trascorrere del tempo, in un’epoca che non conosceva orologi, i ragazzi erano sguinzagliati per le vie dei paesi. Impugnavano strani strumenti di legno. Facendoli ruotare producevano un rumore gracchiante, come il gracidare degli animali che davano il nome a quegli ingegnosi apparecchi: raganelle.
A parte questo, però, erano giorni di silenzio. Un silenzio che ricordava eventi cui non avevano assistito i più vecchi e neppure i nonni dei loro nonni.
Si raccontava di un fatto accaduto in un tempo e in un luogo lontano, dove un crimine era stato compiuto.
L’enormità di quanto era accaduto si era manifestata con le sembianze di un giudizio inappellabile. La sentenza era stata eseguita, i carnefici avevano compiuto il loro lavoro, la folla se n’era andata. Chi aveva sperato in un’improbabile salvezza, fosse solo per poterlo raccontare agli amici, era rimasto deluso. Nessun soccorso era giunto, nessun miracolo era accaduto. La morte aveva vinto la sua battaglia e non restava che il vento a spazzare la scena.
Una dozzina scarsa di fuggiaschi e rinnegati si era rifugiato in una sala dalle porte sprangate, senza trovare il coraggio di parlare o guardarsi in faccia. Troppo dolorosa era la caduta dei loro sogni, delle loro speranze, dei loro ideali. Troppo grande il peso del tradimento, della paura e della disillusione. Una sola cosa poteva lenire un dolore così profondo: il silenzio.
Finché all’improvviso questo era stato rotto dalla voce di alcune donne, che avevano avuto quel coraggio che era mancato agli uomini. Erano andate a vedere e si erano trovate di fronte al più grande dei misteri: un sepolcro vuoto.
Dalla cattedrale di Novara fino all’ultimo oratorio di campagna; dalla basilica dell’isola di San Giulio alle chiese della Valle Strona si oscuravano le luci, si indossava il lutto e le campane venivano legate. Per dare il segno del trascorrere del tempo, in un’epoca che non conosceva orologi, i ragazzi erano sguinzagliati per le vie dei paesi. Impugnavano strani strumenti di legno. Facendoli ruotare producevano un rumore gracchiante, come il gracidare degli animali che davano il nome a quegli ingegnosi apparecchi: raganelle.
A parte questo, però, erano giorni di silenzio. Un silenzio che ricordava eventi cui non avevano assistito i più vecchi e neppure i nonni dei loro nonni.
Si raccontava di un fatto accaduto in un tempo e in un luogo lontano, dove un crimine era stato compiuto.
L’enormità di quanto era accaduto si era manifestata con le sembianze di un giudizio inappellabile. La sentenza era stata eseguita, i carnefici avevano compiuto il loro lavoro, la folla se n’era andata. Chi aveva sperato in un’improbabile salvezza, fosse solo per poterlo raccontare agli amici, era rimasto deluso. Nessun soccorso era giunto, nessun miracolo era accaduto. La morte aveva vinto la sua battaglia e non restava che il vento a spazzare la scena.
Una dozzina scarsa di fuggiaschi e rinnegati si era rifugiato in una sala dalle porte sprangate, senza trovare il coraggio di parlare o guardarsi in faccia. Troppo dolorosa era la caduta dei loro sogni, delle loro speranze, dei loro ideali. Troppo grande il peso del tradimento, della paura e della disillusione. Una sola cosa poteva lenire un dolore così profondo: il silenzio.
Finché all’improvviso questo era stato rotto dalla voce di alcune donne, che avevano avuto quel coraggio che era mancato agli uomini. Erano andate a vedere e si erano trovate di fronte al più grande dei misteri: un sepolcro vuoto.
Buona Pasqua!
RispondiEliminaStupenda rilettura del mistero Pasquale...
Le donne... mistero del creato...sono sempre "oltre" gli uomini.