lunedì 24 dicembre 2018

La ragazza del sogno - Parte 6


Il paese che non esiste più

I paesi sorgono lentamente. Una casa isolata di contadini nella campagna, accanto a una piccolo sentiero, a cui progressivamente se ne aggiungono altre, mentre il viottolo diventa una via che va a collegare ad altri gruppi di case. Talora la crescita viene accelerata dal passaggio di viaggiatori e commercianti, che hanno bisogno di punti di sosta e ristoro, o dall'insediarsi di artigiani che trovano le giuste condizioni per produrre e vendere i propri oggetti. Talaltra il paese esplode, crescendo in maniera esponenziale per il continuo arrivo di nuove persone in cerca di condizioni migliori di vita e di lavoro. E da un piccolo centro nasce una città.

Capita però che il processo si interrompa. Può avvenire per drammatici eventi esterni. Guerre, epidemie, terremoti, epidemie, eruzioni vulcaniche possono distruggere le case e indurre le persone a trovare un luogo migliore e più sicuro dove ricostruirle. Ma ciò può accadere anche per lenta emorragia. Una famiglia se ne va, un negozio chiude, una casa abbandonata non trova persone che vogliano occuparla e poco alla volta, o rapidamente, il paese si svuota. Alla fine non restano che mura che crollano, finché la natura riprende il sopravvento. L'edera e i rovi riempiono gli spazi un tempo occupati dagli amori e dagli odi, dal lavoro e dal riposto. E cosa resta di tante vicende umane? Spesso null'altro che qualche sasso, buono per tirare su un muretto di confine di un campo. Rubato anche quello, secoli dopo nessuno potrebbe immaginare che in quel luogo un tempo sorgesse un paese.

In Cento anni di solitudine sono narrate le vicende del villaggio di Macondo, dalla sua fondazione ad opera di José Arcadio Buendía e sua moglie Ursula Iguarán, alla sua totale distruzione ai tempi della settima generazione dei Buendía, come predetto dalle antiche pergamene dello zingaro Melquíades.

Ma non occorre andare in America per trovare villaggi misteriosamente scomparsi. Mi basta risalire le vie di Bolzano Novarese. Il paese sorge su una serie di terrazze naturali che digradano sul versante occidentale delle colline che separano il Cusio dalla valle dell'Agogna. Un luogo ricco d'acqua e ben soleggiato, da cui si vedono la torre del castello di Buccione e il Monte Rosa.

Superata la casa torre medievale e le misteriose incisioni di volti umani sul lato della via, lasciata alla mia sinistra l'antica chiesa parrocchiale risalgo ancora per la stretta via, fino a raggiungere la sommità dell'altura, dove trovo fertili campi coltivati. Nessuna abitazione, nessun muro sorge in questo luogo, eppure io so che qui, mille anni fa sorgeva un piccolo paese. Cosa resta dei suoi cento e cento Natali festeggiati nelle case le cui porte si aprivano su piccole strade in terra battuta? Solo polvere e poveri resti che forse un giorno qualche archeologo scoprirà nel sottosuolo.

Lo so perché il suo nome compare in pergamene più antiche di quelle di Melquíades, che nulla però ci dicono del mistero della sua scomparsa. Fu la peste, un incendio, l'azione furente di nemici implacabili? O fu solo il lento migrare dei suoi abitanti verso il sottostante borgo di Bolzano?

Certo non fu poca cosa all'epoca. Una chiesa romanica sorge ancora, accanto al cimitero, a tramandarne il nome. Un edificio riccamente affrescato, dedicato a San Martino protettore, tra gli altri, dei viaggiatori e degli albergatori. Segno probabile che un tempo di qui passava una via ben più importante della strada che ora conduce a Invorio.

È quindi alla chiesa di San Martino di Ingravo, questo il nome del paese scomparso ma conservato in quello della chiesa, che mi recherò nella prossima tappa del mio viaggio, per tentare di dare risposta all'enigma.


Questa è la sesta parte de "La ragazza del sogno".

Settima parte


Hai perso le prime parti? eccole

Prima parte
Seconda parte
Terza parte
Quarta parte
Quinta parte





domenica 21 ottobre 2018

La ragazza del sogno - Parte 5


Dove il filo di ferro fu battuto e sciolto

Ottavio arrivò con un libro dalla copertina blu, estratto da un cofanetto del medesimo colore. Rapidamente scorse l'indice di uno dei quattro volumi finché trovò la storia che cercava. 

Alla fine dell'Ottocento nel paese di Gozzano si riunì un gruppo di sfaccendati frequentatori di osterie che, bicchiere dopo bicchiere, diede ascolto alle parole del più balordo della compagnia. 
Egli parlava un linguaggio facilmente intendibile anche per le menti più semplici e le sue parole erano così chiare e gradite che non si poteva non dargli ragione.
"Perché dobbiamo pagare ogni volta il vino all'oste, quando sarebbe assai più comodo e divertente bere a gratis?"
Il punto era come trasformare questa idea in realtà. Anche qui però la soluzione era semplice. 
"Se siamo abbastanza numerosi, entriamo, ordiniamo, beviamo e ce ne andiamo senza tirare fuori un soldo. E se qualcuno non è d'accordo... giù botte!"
Tra gli applausi nacque così la "Compagnia del filo di ferro", che in dialetto locale suonava "cumpagniä dal fil de fèer", e che in breve divenne il terrore di osti e avventori in tutti i paesi a sud del lago d'Orta, da Briga a Vacciago e da San Maurizio a Gargallo.
Una di queste incursioni colpì a sorpresa anche il paese di Bolzano Novarese, suscitando l'indignata reazione degli abitanti, che si riunirono a consiglio per far fronte all'emergenza.
All'epoca ancora il telefono e le automobili non esistevano, pertanto l'idea di richiedere l'intervento rapido della forza pubblica era impraticabile. Nel tempo in cui un messaggero fosse arrivato a Gozzano o Orta per chiedere aiuto la Compagnia si sarebbe facilmente data alla macchia, non senza aver prima creato danni e violenze. Non c'era che da arrangiarsi da soli. 
Fu così escogitato un piano ben preciso e si restò in attesa degli eventi, che non tardarono a verificarsi.
Una domenica, mentre gli uomini erano tutti in chiesa a cantare i Vespri, la Compagnia fece il suo ingresso in paese, contando proprio sulla scarsità di avventori nell'osteria.
Non sapevano però che sentinelle erano state poste. Appena furono avvistati un messaggero corse in chiesa a dare l'allarme. Il parroco non solo era al corrente della cosa, ma aveva dato la propria benedizione e fornito ottimi consigli. Più che ai Vangeli si era probabilmente lasciato ispirare dal Vecchio Testamento, forse da questo passo dell'Ecclesiaste.

Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
C'è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. [...]
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.

Sia come sia, al segnale convenuto e con l'accordo del parroco, tutti gli uomini lasciarono la chiesa e il canto alle donne e si precipitarono nei posti convenuti.
All'ingresso dell'osteria si presentò il Giganti, che già dal nome si comprendeva essere l'uomo più forte di Bolzano, e a male parole ingiunse alla Compagnia di sgombrare. 
Accecati dall'ira e dall'alcol i bulli si gettarono su di lui per dargliene tante, ma si trovarono di fronte a una brutta sorpresa.
Invece di combattere, l'uomo li prendeva di peso a uno a uno e letteralmente li scaraventava fuori. Qui non avevano nemmeno il tempo di rendersi conto di dove si trovavano perché li attendeva un nodoso randello, maneggiato a due mani da un secondo uomo. Il colpo era così forte e inaspettato da spingere istintivamente i malviventi verso l'unica via di fuga, una stretta strada in discesa. Dove però li attendeva un'amara sorpresa. Dietro ogni porta stava nascosto un uomo con un bastone, pronto a caricare di legnate qualunque cosa si muovesse.
Fu così che la fuga dei compari si trasformò in una Via Crucis di dolore, contrassegnata da botte da orbi che piovevano da tutte le parti a cui inutilmente tentavano di sottrarsi gridando, correndo e rotolando.
I buoni consigli del parroco fecero si che quel giorno delle molte legnate che furono caricate sui gropponi nessuna colpì punti vitali come la testa. 
La Legge, infatti, che fino a quel momento aveva dormito il sonno dei giusti, non avrebbe certo potuto chiudere un occhio davanti a uno o più cadaveri, mentre un po' di ossa rotte sarebbero state considerate il risultato delle classiche risse tra ubriachi.

Fu così che, per parafrasare il celebre Bollettino della Vittoria scritto in ben altre circostanze un secolo fa, la Cumpagniä dal fil de fèer fu annientata. I resti di quella che era stata la più temuta banda di furfanti del basso Cusio discendevano in disordine e senza speranza la strada che avevano risalito con orgogliosa sicurezza.
Quel giorno la Compagnia si sciolse e nessuno ebbe più l'ardire di riformarla. La domenica successiva in compenso giunsero a Bolzano delegazioni da tutti i paesi vicini per festeggiare la vittoria con grandi bevute. A pagamento, naturalmente, anche se qualche brindisi offerto ci fu di sicuro.

"Sembra la conclusione di una delle classiche avventure del piccolo villaggio gallico dell'Armorica" osservo divertito. "Che sia per via delle antiche radici celtiche? Ad ogni modo ora che sappiamo dove il filo di ferro fu battuto e si sciolse sarà facile risolvere la seconda parte dell'enigma!"



Nota 1. Il libro che Ottavio ha in mano è Bolzano si racconta. Un paese. il suo consueto vivere, di Stefano Umberto Frattini. La storia della compagnia, tratta da "Paese nuovo" del 1977, che raccolse la testimonianza di un ottantenne, si trova alle pagine 60-62. Mi sono divertito a riscriverla. Spero vi piaccia anche questa versione.

Nota 2. La testa incisa si trova a Bolzano Novarese e ne testimonia le antiche origini medievali.



Questa è la quinta parte de "La ragazza del sogno".

Sesta parte

Qui trovi le puntate precedenti

Prima parte
Seconda parte
Terza parte
Quarta parte

Continua

mercoledì 19 settembre 2018

La ragazza del sogno - Parte 4


Conversazione in biblioteca

I raggi del sole al tramonto attraversavano i vetri della biblioteca dopo aver dipinto con colori d'acquarello le nubi sopra il Monte Rosa. Le due tazze in porcellana inglese sul tavolino in radica contenevano ormai poche gocce del tè che Amar aveva preparato secondo le regole di una sapienza antica.
"Cosa ne pensi?" domandai.
Ottavio si appoggiò allo schienale della poltrona. Le dita giunte arrivarono a sfiorare le labbra, quasi a voler aiutare le parole a trovare la strada.
"Se mi avessi posto questa domanda alcuni anni fa ti avrei risposto in modo molto razionale, attribuendo alla casualità la strana coincidenza tra il sogno che hai fatto e la lettera che hai trovato nascosta sotto la pietra. Non sarebbe stata una vera risposta, perché non ti avrei dato una reale spiegazione, ma probabilmente avrei contribuito a riportare un po' di tranquillità alla tua anima."
Sorrise, come se stesse ricordando i giochi di quando era bambino.
"Oggi, dopo quello che ho avuto modo di vedere e conoscere, potrei dirti che esistono forze soprannaturali che si pongono al di fuori del nostro piano di esistenza, ma che ogni tanto interferiscono con esso."
Mi sembrò che cercasse le parole fuori dalla finestra.
"Ci sono cose che si muovono nelle tenebre che sfuggono alla nostra comprensione. Alcune solo per l'insufficienza dei nostri mezzi di indagine, altre per l'impossibilità di spiegarle razionalmente. Mettiamo che tu abbia una certa capacità di sentire, diversa da quella della maggior parte degli altri. Poniamo che le porte della tua percezione si aprano, o si possano aprire in situazioni particolari, su percorsi che conducono ad altri piani di esistenza. Ad altri mondi forse. Ci sono libri che parlano di passaggi occultati, di porte sigillate in ere remote. Come anche di creature in grado di superare queste barriere. Bene, sia come sia, potresti aver intercettato nel sogno un atto reale, il porre sotto una pietra in un luogo particolare un messaggio di aiuto, e averlo portato sul piano della tua memoria."
Mi guardò, forse per comprendere la mia reazione.
"Tuttavia mi rendo conto che nemmeno questa è una spiegazione, oltre a non essere soddisfacente, in quanto non risponde alla tua domanda."
"Chi è quella ragazza e perché ha bisogno del mio aiuto?" 
"Questa è la domanda fondamentale. Per scoprirlo dovrai risolvere l'enigma che si cela nelle sue parole, anche se forse sarà solo l'inizio del tuo viaggio."
"Dove il filo di ferro fu battuto e si sciolse, cerca il paese che non c'è più" mormorai. "Potrebbe essere un maglio. Ce n'erano diversi che utilizzavano l'acqua dei torrenti attorno al lago d'Orta e nella valle dell'Agogna, se non fosse che un filo di ferro battuto non si scioglie. A meno di metterlo in un altoforno, naturalmente, ma non mi sembra questo il senso dell'enigma."
"No, infatti, non credo proprio."
"E poi c'è la questione del paese che non c'è più" osservai. Di quelli ne abbiamo diversi. Compaiono nelle carte medievali e anche posteriori per poi scomparire dalla storia per l'abbandono da parte dei loro abitanti. Paesi fantasma potremmo definirli ormai. Di cui spesso restano pochi ruderi o nessuno proprio. Pestilenze, guerre, incendi o semplice abbandono. Talora è impossibile dirlo. Mi domando però che nesso possa esserci tra un filo di ferro e un paese abbandonato..."
"Aspetta!" gridò battendosi una mano sulla fronte e alzandosi. "Mi sono ricordato di una vecchia storia, che risale forse a un secolo fa più o meno. L'ho letta in un libro che deve essere qui da qualche parte."
Ottavio si mise a cercare tra gli scaffali, mentre la mia curiosità cresceva.


Questa è la quarta parte de "La ragazza del sogno".

Quinta parte


Qui trovate le puntate precedenti

Prima parte 
Seconda parte 
Terza parte 

venerdì 31 agosto 2018

La ragazza del sogno - Parte 3



La Dimora degli Erranti

Le case di questo piccolo borgo circondato dalla foresta si sporgono su vicoli stretti. Un tempo era una forma di difesa contro i predatori a quattro e due zampe che si aggiravano nell'oscurità della notte. Alla sera bastava chiudere i robusti cancelli agli ingressi del paese per trasformarlo in un fortino.
Ora le case pericolanti, puntellate frettolosamente dal comune, costituiscono un pericolo per chi osi avventurarsi tra quelle rovine abbandonate da anni. Dove un tempo lavoravano e combattevano, invidiavano e amavano settanta famiglie ora non restano che case dai tetti sfondati e mura invase dalla vegetazione. La gente se n'è andata, lasciando una vita dura per cercare fortuna altrove. Molti hanno attraversato il mare per trovarla. Altri ancora vi hanno perso la vita, assieme a tanti altri italiani emigrati in tutto il mondo. Ma questo è ormai un passato scomodo che preferiamo dimenticare.
Non tutti però hanno lasciato Pregallo. Passo davanti alla grande chiesa, da anni sconsacrata, e trovo una macchina olandese. La casa di fronte è stata recentemente restaurata, con gusto e rispetto per la sua storia. Anche qui cominciano ad affluire nuovi abitanti, che hanno scoperto la bellezza incantata di questi luoghi da cui nelle mattine terse puoi vedere il Monte Rosa illuminato dai primi raggi del sole e hanno deciso di tornare a popolare il borgo.
C'è una casa però che non è mai stata abbandonata, generazione dopo generazione. Si trova appena sopra il paese e la strada asfaltata termina esattamente davanti al suo portone barocco. Un alto muro impedisce la vista del grande parco ben curato che circonda la villa coi suoi misteri.
Il campanello si trova sul pilastro di destra, sopra una piastrella con la riproduzione del mosaico romano "cave canem" e la scritta incisa in caratteri eleganti "Dimora degli Erranti". Non è esattamente il cognome dei proprietari, forse piuttosto un monito a loro stessi. Qui abita il mio amico Ottavio Errante.
Al suono del campanello fece eco un latrato sempre più vicino, finché dall'altra parte del portone risuonò il richiamo di alcuni giganteschi Do-khyi. Un istante dopo l'uscio più piccolo del portone si aprì e comparve Amar.
"Namasté" mi inchinai rispettosamente con un sorriso.
Non chiedetemi di descriverlo. Posso dirvi che Amar è un nepalese di bassa statura, ma nonostante l'abbia visto più volte non riesco ad imprimermi nella mente nessun altro tratto distintivo. Anche l'età è indefinibile, benché non debba essere troppo giovane, essendo stato già al servizio del padre di Ottavio. Non saprei nemmeno dire esattamente quale sia il suo suolo. Potrei forse definirlo il  domestico di famiglia, ma ho la sensazione che questa idea sia più soprattutto un riflesso condizionato dei miei schemi mentali. Factotum forse sarebbe più preciso, perché Amar è custode, giardiniere, cuoco e chissà cos'altro ancora della Dimora degli Erranti. Perché se devo dar retta al mio sesto senso in lui c'è molto di più di quello che potrebbe sembrare.
A un suo sommesso fischio i molossi tibetani si erano acquietati e ci scortarono trotterellando mentre procedevamo sul viale, finché vidi venirci incontro la figura atletica di Ottavio.
Sorrisi pensando a quanto dovessero essere affollate di signore e signorine di ogni età le messe che celebrava. Ma questo appartiene a una vita passata dell'Errante, che da tempo ha lasciato la tonaca e si è ritirato in questa sorta di eremitaggio.
"Carissimo" mi saluta calorosamente "vieni a raccontarmi davanti a una tazza di té caldo cosa ti porta a Pregallo!"

Questa è la terza parte de "La ragazza del sogno".

Quarta parte



Parti precedenti

prima parte

seconda parte

giovedì 2 agosto 2018

La ragazza del sogno - Parte 2


Antiche strade  

Risalgo velocemente la strada, camminando su pietre antiche che hanno visto passare mercanti e contrabbandieri, fuggiaschi ed eserciti. Un tempo qui terminava l'antica Riviera di San Giulio, un feudo che per oltre cinquecento anni fu praticamente indipendente, e iniziava il Ducato di Milano. Oltre il confine s'ergeva la forza delle armi viscontee, sforzesche, spagnole e infine austriache. 

Da questa parte la fragile difesa delle leggi e di un diritto consuetudinario che non era disposto a venire a patti con l'arbitrio.
Lo imparò a sue spese un signorotto che aveva la sua base nel Vergante e passò alla storia come "il Viscontino". Una mattina partì baldanzoso da Massino alla testa di un centinaio di masnadieri per saccheggiare Ameno e Armeno e catturare dei prigionieri che a caro prezzo avrebbero poi dovuto riscattare la propria libertà.

La pazienza delle genti della Riviera era però finita. Fin dal mattino, quando gli invasori erano stati avvistati, da ogni campanile e da ogni torre le campane avevano preso a suonare a stormo. Dai pascoli del Mottarone al castello di Gozzano, dalla ricca sponda orientale agli aspri monti di quella occidentale ogni uomo valido, e anche molte donne, brandivano picche, moschetti, lance, scuri falci, roncole, forche e ogni tipo di arma o strumento adatto a combattere.
Se li trovò davanti nella valle ai piedi del Motto Duno. Erano contadini, artigiani, pescatori, boscaioli e pastori, ma c'era persino qualche notaio e dottore. Li guardò e rise il Viscontino che maneggiava le armi fin da bambino e aveva imparato a cavalcare prima ancora di camminare. Ordinò sprezzante ai suoi uomini di spazzare via quella marmaglia e lui stesso guidò la carica.

Ma le genti di Riviera non si diedero alla fuga, stringendosi compatti e protendendo le picche e le lance per fermare i cavalli, mentre con ogni tipo di arma bersagliavano i nemici.
Essendo impossibile vincere il Viscontino ordinò la ritirata, ma troppo tardi si accorse di essere finito in trappola. La milizia della Riviera era sbucata dai boschi e scesa dai monti, chiudendo ogni via di fuga. Una collera sorda animava i rivieraschi. Non avevano scordato le violenze, le ruberie, gli stupri e gli omicidi degli anni precedenti. Non si sarebbero fatti prigionieri quel giorno.

Il Viscontino abbandonò i suoi soldati che a piedi tentavano invano di resistere a quella marea montante e si lanciò a cavallo in un punto dello schieramento avversario che aveva notato essere meno fitto. Lo sfondò brandendo la spada e fuggì verso il suo castello. 
Un colpo di archibugio lo prese in pieno, sbalzandolo di sella. Un piede rimase attaccato al cavallo in fuga, che prese a trascinarlo sul terreno. Riuscì con la lama a tagliare la staffa, ma mentre tentava di alzarsi, ferito e sfinito, fece appena in tempo a vedere la furia piombare su di lui.

“Dove l’uomo più pecca, là egli muore” scrisse come epitaffio di quella vicenda il notaio Olina di Orta, che partecipò a quel "gran duello", una resa dei conti finale in cui trovarono la morte un'ottantina di masnadieri.

Non sono però le vicende del Viscontino avvenute nel secolo decimosesto a guidare i miei passi su questa strada. Mi sto recando a casa di un amico. L'unico, credo, che possa aiutarmi a svelare il mistero della ragazza del sogno che è tornata a trovarmi puntualmente ogni notte, come un incubo che non riesce a trovare pace. E del biglietto che ho trovato realmente e che riporta le sue stesse parole. 

C'è solo un uomo, tra quanti conosco, che abbia avuto modo di confrontarsi con fenomeni ai confini della realtà. Un amico che in passato affrontò orrori indicibili e sopravvisse per raccontarli.

Devo incontrarlo e per farlo devo andare a Pregallo. Lì abita Ottavio Errante.



Questa è la seconda parte di una storia a puntate intitolata "La ragazza del sogno".

Terza parte


Qui puoi trovare la prima parte



giovedì 26 luglio 2018

La ragazza del sogno - Parte 1

Era l'ultima notte che avrei passato nel bosco da solo, in una vecchia casa di legno e pietra sulle pendici dei monti. La pioggia che cadeva leggera sul tetto aveva trovato il modo di infiltrarsi tra le pietre e gocciolava lentamente nel secchio che avevo posizionato sulla pozza d'acqua. Ogni luce era spenta e il silenzio era interrotto solo dal cinguettio di qualche uccello tra i rami e dai richiami degli ungulati tra i cespugli.

Di tutto questo ero ignaro, preso com'ero dai sogni del tempo passato, cercando inutilmente quelli del tempo futuro. Fu allora che una mano si posò sulla maniglia e aprì la porta. Vidi la ragazza avanzare incerta coi piedi scalzi, i capelli gocciolanti e il viso, un tempo noto, che non riuscivo a ricordare.

"Aiutami" disse. "Ho bisogno del tuo aiuto."

Vidi una mano spostare un sasso accanto a una grande pietra e nascondervi un biglietto. 

"Dove il filo di ferro fu battuto e si sciolse, cerca il paese che non c'è più."

Mi svegliai di colpo tentando invano di trattenere i lineamenti di quel volto dolcemente triste.

Era ormai mattina e il sole splendeva. Mi affrettai a preparare i pochi bagagli e mi diressi a passo spedito verso l'uscita dal bosco. Quando l'avevo quasi raggiunta mi tornò in mente lo strano sogno notturno e deviai dal sentiero per raggiungere il masso che avevo visto e che ben conoscevo, essendo di quelli segnati. Dalle streghe si sarebbe detto in tempi antichi. Tempi di sciocche e incredibili superstizioni avrei detto fino a pochi anni fa, prima di vederne di nuove e ben più risibili sorgere come funghi velenosi sparsi da un vento tecnologico.

Trovai facilmente il sasso. Lo sollevai con timore, trovandovi un biglietto con una breve scritta.

Aiutami. Ho bisogno del tuo aiuto!



sabato 24 marzo 2018

Amori nel bosco




Nel folto del bosco, dove gli alberi sono secolari, guidato infallibilmente dalla giovane Evelyn scopro un luogo che in teoria non dovrebbe esistere. Su tutti i tronchi, ma anche su ogni roccia tenera stavano due nomi legati insieme da diversi nodi. Erano incisioni antiche, parzialmente coperte dal muschio, ma i nomi erano ancora perfettamente visibili. 
"Angelica e Medoro" lessi ad alta voce.
Quel luogo era impossibile. Come potevano essere davanti a noi le tracce dell'amore cantato dall'Ariosto cinquecento anni orsono? Un amore che ai suoi tempi, se non fosse stato frutto della sua mente, di anni ne avrebbe avuti circa settecento, peraltro.

Fra piacer tanti, ovunque un arbor dritto
vedesse ombrare o fonte o rivo puro,
v'avea spillo o coltel subito fitto;
così, se v'era alcun sasso men duro:
ed era fuori in mille luoghi scritto,
e così in casa in altritanti il muro,
Angelica e Medoro, in vari modi
legati insieme di diversi nodi.


Guardando quelle scritte mi vennero in mente le storie raccontate millanta volte da pupari che conoscevano a memoria l'Orlando furioso e le altre opere dei paladini pur senza averle imparate a scuola.

Come avesse letto nei miei pensieri Evelyn inizia a raccontarmi proprio la sua discendenza da una famiglia di pupari la cui arte era capace di rendere vivi e in carne ed ossa marionette di legno.

E mentre parlava mi sembrava di vedere gli alberi prendere forma e muoversi, come personaggi di un racconto incantato.

lunedì 19 marzo 2018

Gli scherzi di un dio burlone



Odino era un dio bugiardo, l'abbiamo detto, ma non poteva certo competere in questo col perfido Loki, un autentico specialista in inganni, nonché padre di creature assolutamente spaventose. 
Come il lupo Fenrir, che divorerà lo stesso Odino nel fatale giorno del Ragnarok. O come il gran serpente drago Jǫrmungandr, che si contorce eternamente nelle profondità dell'abisso mordendosi la coda tra le fauci. 
La più terribile era però la figlia, Hel. Odino per togliersela di torno la relegò nel mondo sotterraneo rendendola regina dei morti. Grata comunque di questa corona, Hel regalò a Odino due corvi, Huginn e Muninn. Divenuti i suoi fidati aiutanti, i due uccelli gli riferivano tutto ciò che avevano visto e udito.
Loki amava molto fare scherzi, così decise di partecipare ad un gioco che gli dei organizzavano ogni giorno. Tempo prima, presagendo la propria morte, il dio Baldr era corso a chiedere aiuto ai genitori. Odino scese da Hel e vide che in effetti tutto era pronto per accogliere il figlio tra i morti. La madre, Frigg, decise di opporsi a quel destino e radunò ogni creatura e oggetto intimando di giurare che mai avrebbe fatto male a Baldr. Gli dei, sapendolo, si divertivano a scagliare ogni sorta di cosa contro Baldr, che riceveva spavaldo i colpi inoffensivi.
Quel giorno Loki si avvicinò al dio cieco Hodr e gli disse che trovava una grande ingiustizia il fatto che non potesse divertirsi come gli altri.
"Lascia che ti aiuti io a prendere la mira con l'arco... ecco così... un po' più a destra... un po' più in alto... bene così, puoi scoccare la tua freccia."
Questa però altro non era che un rametto di vischio, datogli dallo stesso Loki, il quale ben sapeva che il vischio era l'unico essere a non aver prestato giuramento, perché Frigg l'aveva giudicato inoffensivo.
Fu così che Baldr venne trapassato da parte a parte e morì, tra lo sconcerto degli dei.

Così terminò il racconto che stavo facendo a Evelyn, la quale in cambio mi disse di aver visto una cosa molto strana nel folto del bosco...


giovedì 15 marzo 2018

L'albero della Conoscenza



Ce ne stavamo seduti sotto le fronde di un albero, intenti a consumare le merende prima che i nostri passi ritornassero a portarci su sentieri divergenti.
Ogni tanto Evelyn e io lanciavamo qualche briciola di pane agli uccellini che scendevano a becchettare nell'erba. Alcuni più timidi si tenevano a distanza, mentre altri più coraggiosi o sfrontati si avvicinavano per cogliere i bocconi più grossi. 
Quella scena non poteva non evocare il ricordo di Hänsel e Gretel, del loro obbligato inoltrarsi in un bosco pericoloso fino alla casa di marzapane costruita come una trappola per bambini affamati dalla strega cannibale. 

Del resto più ci si inoltra nel fitto della foresta più gli alberi sono antichi e le loro radici profonde. Nessuno di essi tuttavia ha rami alti e radici profonde quanto un frassino ricordato da un'antica leggenda norrena.
Ad esso si rivolse un viandante, cieco di un occhio, che viaggiava appoggiandosi a una lancia ed era seguito da due corvi. Un tipo ingannevole, di quelli capaci di giurare sul proprio anello, mentendo spudoratamente. Un tipo di quelli, insomma, a cui sarebbe meglio non aprire la porta, se vengono a bussare dopo il tramonto. Un tipo troppo pericoloso, tuttavia, per rifiutargli gli antichi doveri dell'ospitalità. 

Il viandante era pronto a tutto per conquistare il potere della Conoscenza. Così egli cercò il grande frassino, "Yggdrasill lo chiamano, alto tronco lambito d'acqua bianca di argilla" com'è scritto nella Profezia della Veggente.

"Io so, fui appeso all’albero esposto al vento
per nove notti intere, ferito da una lancia
e sacrificato ad Óðinn, a me stesso,
a quell’albero di cui nessuno sa
dove affondino le radici.
Non mi saziarono col pane né dissetarono coi corni,
guardai in basso, conobbi le rune,
le conobbi soffrendo, e poi caddi giù."

Così il Viandante, che altri non era se non lo stesso re degli dei del Valhalla, Odino, conquistò il potere delle Rune sacrificando sé stesso ad Odino.





lunedì 12 marzo 2018

Quante matite stanno in un albero?



Narra un antico mito che il dio del Sole, Apollo, un giorno si vantò con il dio dell'Amore, sostenendo di essere assai più bravo con l'arco e le frecce.
Eros però era un dio tra i più permalosi e si sentì punto sul vivo. Così prese due frecce, una dalla punta d'oro e l'altra di piombo. Scagliò la prima contro Apollo, mentre con la seconda trafisse il cuore di Dafne. 
Fu così che il dio s'innamorò perdutamente della bellissima ninfa, la quale invece, tale era l'effetto del piombo nel suo cuore, lo rifiutò sdegnosamente e prese a fuggire per sottrarsi agli abbracci del focoso innamorato. Poiché le forze erano impari e tentare di persuaderlo a parole non era nemmeno da prendersi considerarsi, la disperata Dafne invocò la madre, che era la dea della Terra. Udendo le grida della figlia, Gea, per salvarla non trovò di meglio che trasformarla in una pianta di lauro. I piedi divennero radici e le braccia rami protesi verso il cielo. All'innamorato non restò che farne il proprio albero sacro, con le cui fronde incoronare coloro che meritano nelle arti e, oggigiorno, inseguono una laurea.
Sarà per questo che chi è a caccia di ispirazione percorre i boschi e si avvicina agli alberi? Di certo la cercava la misteriosa ragazza dagli occhi sognanti incontrata nel bosco. Non che mancasse a Evelyn, questo era il suo nome, dal momento che fin da piccola aveva coltivato la passione per il disegno e il fumetto (qui trovate, se volete, la sua biografia).
Ma trovava nelle creature vegetali, mi disse, vibrazioni positive capaci di trasferirsi nelle sue matite. E poiché aveva con sé alcuni lavori me li mostrò. Uno in particolare mi risultò subito assai simpatico, dal momento che anche per me un'umile pianticella era stata fonte di ispirazione 
A questo proposito, dovrei andare a controllare come sta il mio piccolo cactus...

giovedì 8 marzo 2018

Inaspettati incontri nel bosco




La mia immersione nel folto del bosco è durata più di quanto immaginassi. Colpa delle molte distrazioni che puoi trovare qui dentro. Vedi un fiore, un fungo, un frutto e ti allontani dal sentiero. ed è lì che l'avventura comincia. Ne sanno qualcosa alcuni bambini famosi, come l'ingenua Cappuccetto Rosso, il furbo Pollicino o i coraggiosi Hansel e Gretel.
Del resto, come diceva Bernardo di Chiaravalle "Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà."
Guardandoti attorno ti rendi conto infatti che gran parte di essi è nata molto prima che tu emettessi il primo vagito. E a una tale antichità si associa sovente un'aura divina.
"Quando entri in un bosco popolato da antichi alberi, più alti dell’ordinario, e che precludono la vista del cielo con i loro spessi rami intrecciati, le maestose ombre dei tronchi, la quiete del posto, non ti colpiscono con la presenza di una divinità?" scriveva Lucio Anneo Seneca un migliaio d'anni, anno più anno meno, prima di Bernardo.
Una divinità o un essere malvagio? O un po' l'una e un po' l'altra? Talvolta la differenza è sottile e impalpabile, come un velo leggero. Come definire Circe, figlia del dio sole e strega potentissima, capace di terribili magie?
"Scôrsi un fumo salir d’infra una selva / di querce annose, che in un vasto piano / di Circe alla magion sorgeano intorno" scriveva parlando di Ulisse il grande Omero, un migliaio d'anni, anno più anno meno, di Lucio.
Nel mio piccolo anch'io ebbi un incontro inaspettato nel bosco. Una figura femminile mi comparve davanti, così inaspettatamente vicina da non poter far altro che fermarsi e tentare di intavolare una conversazione.
Se fosse una fata, una strega o qualcosa d'altro ancora ve lo dirò la prossima volta, nel frattempo godetevi questo bel disegno di Evelyn


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"Di un fatto del genere fui testimone oculare io stesso".

Ludovico Maria Sinistrari di Ameno.