sabato 21 dicembre 2013

Impronte di drago sul lungolago di Arona



Sono comparse alcune impronte misteriose sulle spiaggette di Corso Europa, ad Arona, sul Lago Maggiore. A notarle sono stati alcuni passanti, attirati dall'abbaiare dei cani attorno alle pozzanghere di forma assai insolita.

Le impronte sembrano appartenere ad animali di grandi dimensioni, bipedi, con zampe a tre dita e dotate di lunghi artigli. Le tracce escono e rientrano dall'acqua e il tratto percorso a terra misura una dozzina di metri.

Tra gli esperti convenuti sul posto a studiare il fenomeno c'era anche la scrittrice e collezionista di leggende locali Francesca D'Amato. 
"Misure, forma dei polpastrelli, profondità degli artigli e disposizione delle dita sembrano confermare che si tratti di impronte di drago. I draghi italiani camminano su due zampe, non quattro come si vede nei film. Gli stemmi araldici medievali li rappresentano esattamente come li descrivo nel mio romanzo (Draghi randagi, Compagnia della Rocca Edizioni ndr), appena pubblicato."

Per ora non si sono registrati danni da parte dei draghi e D'Amato rassicura: "Se non ce ne sono stati fino a oggi è perché la dieta dei draghi italiani è fatta soprattutto di pesce e sono creature schive, vista la caccia che hanno subito nei secoli. Piuttosto è strano che siano in giro con questo freddo, dovrebbero essere in letargo in questa stagione. Forse qualcosa li ha disturbati."

Chiunque dovesse notare nuove impronte o tracce di drago, fuori dalle librerie, è pregato di segnalarlo al sito www.gnomi.org, dove è possibile consultare la mappa delle leggende italiane relative ai draghi e scoprire di cosa parla il romanzo "Draghi randagi - la grande fuga tra le Alpi".

mercoledì 18 dicembre 2013

Morto e mangiato

Il pallido scrittore di storie a tinte forti ha colpito ancora. Dopo aver coinvolto 365 scrittori per scrivere 365 storie cattive ha pensato ora di svegliare dal sonno eterno un manipolo di affamati morti viventi.

Per farlo, visto che gli zombie sono davvero affamati, si è avvalso della collaborazione di Chiara Poli, che “ha conosciuto Paolo Franchini qualche anno fa grazie a Blogger al forno, il progetto di cucina di Whirlpool che coinvolgeva 5 blogger italiani. La Poli è impazzita e si è trasformata in una cuoca provetta, posseduta dallo spirito di Suor Germana. Franchini ha cucinato delle pietanze molto noir, ma anche molto umoristiche, cercando a più riprese di esorcizzare la Poli, finora senza risultati soddisfacenti.”

Insieme a loro cento autori, che hanno prestato la loro penna virtuale per  scrivere cento storie che vedono protagonisti gli zombie. Perché proprio loro?

“Lo sfacelo dell’economia mondiale costringe gli esseri umani a tornare a pensare all’essenziale. Ovvero: cibo, un riparo per la propria famiglia e ciò che serve per tenerla al sicuro. Il segreto del successo degli zombie è tutto qui. Ci fanno affrontare la paura più grande, ci costringono a riflettere sull’unico appuntamento al quale nessuno di noi, prima o poi, potrà mancare e ci spingono a chiederci: come vogliamo viverlo il tempo che abbiamo a disposizione prima di quel momento? La vita è preziosa. Vivere intensamente, dando valore a ogni singolo giorno, è quanto di meglio possiamo fare. E quanto di più difficile.”

Il risultato è l’antologia “Morto e mangiato – Storie di zombie di AA. VV.”, disponibile in ebook presso i migliori store on line al prezzo di €.4,99 e in formato cartaceo ordinabile tramite il sito www.mortoemangiato.tk al prezzo di €.15,00.

Come per le storie cattive, anche in questo caso la finalità è buona: aiutare coi proventi dei libri A.I.S.EA Onlus e AST Onlus, due associazioni senza fini di lucro a supporto delle persone affette da due malattie rare, la Sindrome di Emiplegia Alternante e la Sclerosi Tuberosa, e delle loro famiglie.

Sul sito www.mortoemangiato.tk potete trovare ulteriori informazioni.

Dimenticavo di dire che tra gli autori ci sono anch’io, ma questa è senz’altro la cosa meno importante.

mercoledì 11 dicembre 2013

Alpinisti ciabattoni

Un treno procede in direzione nord, dopo una breve sosta alla stazione di Caltignaga. Così breve che un povero vecchietto non ha nemmeno il tempo di scendere per un’urgenza che dovrà aspettare, prima di essere soddisfatta, l’arrivo nella stazione di Gozzano. Perché a quel tempo, negli anni Ottanta dell’Ottocento, il treno fermava la sua corsa nel paese a sud del lago d’Orta. Da qui, in carrozza, si poteva raggiungere l’imbarco di Buccione e col battello arrivare a Orta.
Nel capoluogo cusiano sbarcano con gli altri anche due strani viaggiatori che avevamo avuto modo di incontrare sul treno, nello stesso scompartimento del vecchietto.

“Entrambi vestiti della festa, lui con una giacca nuova che gli rampicava su su nelle spalle, un colletto di camicia fresco di stiratura, ma di certo molto incomodo.”
Lei “era in gran montura, ma non si trovava a suo agio nella costrettura del busto, che non era solita a portare. Vestiva un bell'abito di seta marrone, ricca, croja, incartita, e sopra una spolverina di lana chiara copiata per la circostanza sul più recente figurino. Una grossa catena d'oro le cascava pesante dal corsetto fin sulla pancia. Orologio d'oro in vista, braccialetto, e orecchini di brillanti che stonavano coi fulgori di stella sulla pelle gialliccia e passura delle guance flosce.
Cappello a tese larghe, alto conico, e sopra fiori, grappoli, piumetti, tutto annuvolato in un velo di tulle; una montagna piena di sporgenze che urtavano da ogni parte, tenendola in un disagio che dava malinconia.
— Leva quela cavagna che te ghet in testa — le disse il marito…
Madama non rispose, e si sventagliò la faccia puntando al soffitto con dignitoso risentimento il suo naso tagliato a scarpa.”

I loro nomi? Gaudenzio Gibella e Martina Gibella sua moglie.

“I coniugi Gibella venivano dalle risaje della Lomellina; sfiaccolati dall'afa palustre, correvano a chiedere un po' di refrigerio alle fresche aure della riviera di Orta.
Avevano un bel negozio di drogheria in Sanazzaro, e dopo tanti anni di assiduità bottegaja, ora che gli affari erano assodati, ora che il loro primogenito Leopoldo aveva senno bastante per curare il negozio e la casa, ecco che i Gibella si erano messi in viaggio realizzando finalmente un vecchio progetto architettato ad ogni chiusura annuale dei conti, e rimandato da una stagione all'altra, per una ventina d'anni.”

I due coniugi si cimenteranno anche in un’ardita salita sui monti alla ricerca di latte fresco, ma con esiti disastrosi. Esito assolutamente prevedibile trattandosi di due “Alpinisti ciabattoni”!

Proprio questo è il titolo di un divertente romanzo, pubblicato nel 1888 da un altro Scapigliato che conosceva bene il lago d’Orta, Achille Giovanni Cagna, nato a Vercelli nel 1847 e morto nella stessa città nel 1931.
I suoi inizi non furono dei più brillanti. Iscritto all'Istituto professionale Cavour fu cacciato dal secondo corso in quanto "disutile", inetto e incapace a dedicarsi agli studi. Cominciò quindi a lavorare col padre che era stipettaio e presidente della Società operaia di Vercelli, ma per sbarcare il lunario dovette fare vari lavori modesti, coltivando parallelamente da autodidatta la passione della lettura e della scrittura.
Un aiuto gli venne dagli amici, come Giuseppe Cesare Abba, Edmondo De Amicis e Giovanni Faldella, il maggior esponente della Scapigliatura piemontese.
Il successo delle sue opere lo spinse a cercare una personale rivincita. In base alla Legge Casati del 1859, che disciplinava l’insegnamento scolastico, era possibile ottenere la nomina a professore nelle scuole professionali anche senza titolo di studio, ma solo grazie alle opere pubblicate. Cagna chiese così l'abilitazione all'insegnamento di lingua e letteratura italiana. Il Consiglio superiore, però, riconobbe bensì nelle sue opere "ingegno istintivo e cultura e abilità descrittiva", ma rigettò la domanda, dal momento che “si trattava solo di letteratura amena”. 
Lo scrittore scrisse allora “Marcia di una gente”, pubblicato nel 1889, un compendio di storia greca grazie al quale gli fu concessa l'abilitazione provvisoria per tre anni. Rientrò così, e per la porta principale, in quello stesso istituto Cavour dalla cui finestra era stato cacciato. Vi insegnò tre anni, gratuitamente, come supplente di letteratura, ottenendo infine l'abilitazione definitiva.
Toltasi quella soddisfazione lasciò la scuola e tornò ad occuparsi di un’azienda agricola di famiglia, dedicandosi contemporaneamente alle lettere e alla politica. Divenuto consigliere comunale e membro della commissione scolastica, apprezzato conferenziere e giornalista il monello "disutile" di un tempo era infine riuscito a diventare un “autodidatta laureato”.

 Se volete leggere il testo seguite questo link.

mercoledì 4 dicembre 2013

Il corvo di Orta

Ernesto Ragazzoni fu il più grande poeta ortese, anche per la sua capacità di interpretare quello spirito insieme romantico e ironico che gli abitanti di questo piccolo borgo cusiano hanno sempre avuto. Ho già fatto cenno ad alcune sue produzioni eccentriche, ma vale la pena ora di ritornare sui nostri passi e guardare di nuovo a questo personaggio, morto di cirrosi epatica tre giorni prima di compiere cinquant’anni, il 5 gennaio 1920.

Non aggiungo altro alla sua biografia, dal momento che una volta egli disse a un amico: 

«Quando non ci sarò più [...] se qualche amico di buona volontà vorrà raccogliere le mie poesie e i miei scritti, non potrò certo oppormici. Ma, te ne prego, se qualcuno farà la prefazione, bada che non mi prenda troppo sul serio. Non vorrei, per esempio, una biografia che dicesse solennemente: "E. R. nacque ai tanti del mese dell'anno tale, e morì... come se si trattasse di un uomo celebre qualunque. E se aggiungesse poi che studiai all'Istituto tecnico di Novara e che ebbi il diploma di ragioniere? Penso quanto sarebbe buffo di far sapere al mondo che quel mattacchione di Ragazzoni era ragioniere!»

Chi volesse approfondire la sua figura può peraltro trovare online un interessante saggio di Cesare Bermani, che di Ragazzoni è un esperto. 

Oltre che poeta, Ragazzoni fu un appassionato di occultismo e teorie teosofiche. Si racconta che durante un soggiorno in Inghilterra abbia assistito, nascosto in un bosco, a un rituale magico eseguito da una setta. Si trattava forse della “Golden Dawn” che ebbe molta influenza, non sempre positiva, su vari movimenti filosofici, politici e culturali del Novecento e di cui uno dei principali componenti fu il famigerato occultista Aleister Crowley.

Il fascino per le atmosfere misteriose non si esaurì, per nostra fortuna, in queste avventure notturne. Ragazzoni rimase affascinato da un poema che era stato introdotto in Europa nel 1859 dal “poeta maledetto” francese Charles Baudelaire.
Il testo era stato pubblicato nel febbraio 1845 sull’American Review a firma di un certo “Quarles”. Per qualche tempo l’autore di questo componimento rimase ignoto, finché, in un suntuoso appartamento di Waverley Place, di proprietà di miss Anna C. Lynch, un’autrice famosa che amava raccogliere intorno a sé il meglio della società letteraria di New York, un giovane scrittore fu invitato a recitare proprio quei versi ormai famosi, che avrebbero catapultato l’autore nell’Olimpo dei grandi della poesia anglosassone, accanto a Milton, Shelley e Keats.
Un silenzio elettrizzato afferrò i presenti, mentre ascoltavano rapiti la sua voce recitare 

Once upon a midnight dreary, while I pondered weak and weary…” 

Così cantò Edgar Allan Poe, apprezzato scrittore di racconti polizieschi e del terrore, e ognuno in quella sala comprese che solo lui poteva essere l’autore di “The Raven”. 
Dieci anni dopo la prematura morte di Poe, avvenuta in circostanze misteriose e mai chiarite, Baudelaire tradusse “The Raven” in francese facendolo conoscere nel vecchio continente. Ragazzoni s’innamorò di quel poema e scrisse una delle migliori traduzioni italiane, che diede alle stampe assieme ad altre sempre da Poe, nel 1896.

Non so dire dove sia nata l'idea di tradurre quei versi. Concedetemi di pensare che durante un ritorno invernale al suo “hortus conclusus”, osservando un corvo sui tetti di pietra del piccolo borgo di Orta, il poeta Ernesto Ragazzoni abbia deciso di mettere mano alla penna per scrivere: 

Una volta, a mezzanotte, mentre stanco e affaticato
meditavo sovra un raro, strano codice obliato,
e la testa grave e assorta — non reggevami piú su,
fui destato all’improvviso da un romore alla mia porta.
«Un viatore, un pellegrino, bussa — dissi — alla mia porta,
                          solo questo e nulla più!»

Oh, ricordo, era il dicembre e il riflesso sonnolento
dei tizzoni in agonia ricamava il pavimento.
Triste avevo invan l’aurora — chiesto e invano una virtù
a’ miei libri, per scordare la perduta mia Lenora,
la raggiante, santa vergine che in ciel chiamano Lenora
                          e qui nome or non ha più!

E il severo, vago, morbido, ondeggiare dei velluti
mi riempiva, penetrava di terrori sconosciuti!
tanto infine che, a far corta — quell’angoscia, m’alzai su
mormorando: «È un pellegrino che ha battuto alla mia porta,
un viatore o un pellegrino che ha battuto alla mia porta,
                          questo, e nulla, nulla più!».

Calmo allor, cacciate alfine quelle immagini confuse,
mossi un passo, e: «Signor — dissi — o signora, mille scuse!
ma vi giuro, tanto assorta — m’era l’anima e quassù
tanto piano, tanto lieve voi bussaste alla mia porta,
ch’io non sono ancor ben certo d’esser desto». Aprii la porta:
                          un gran buio, e nulla più!

Impietrito in quella tenebra, dubitoso, tutta un’ora
stetti, fosco, immerso in sogni che mortal non sognò ancora!
ma la notte non dié un segno — il silenzio pur non fu
rotto, e solo, solo un nome s’udì gemere: «Lenora!»
Io lo dissi, ed a sua volta rimandò l’eco: «Lenora!»
                          Solo questo e nulla più!

E rientrai! ma come pallido, triste in cor fino alla morte
esitavo, un nuovo strepito mi riscosse, e or fu sì forte
che davver, pensai, davvero — qualche arcano avvien quaggiù,
qualche arcan che mi conviene penetrar, qualche mistero!
Lasciam l’anima calmarsi, poi scrutiam questo mistero!
                          Sarà il vento e nulla più!

Qui dischiusi i vetri e torvo, — con gran strepito di penne,
grave, altero, irruppe un corvo — dell’età la più solenne:
ei non fece inchin di sorta — non fe’ cenno alcun, ma giù,
come un lord od una lady si diresse alla mia porta,
ad un busto di Minerva, proprio sopra alla mia porta,
                          scese, stette e nulla più.


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"Di un fatto del genere fui testimone oculare io stesso".

Ludovico Maria Sinistrari di Ameno.