La caduta di un impero, signori, è un avvenimento di enormi proporzioni, non facile certamente da combattere. È provocata dalla crescita della burocrazia, dall’inaridirsi dell’iniziativa umana, dall’immobilismo delle caste, dall’appiattimento degli interessi… e da centinaia di altri fattori…
A guardare le cose in modo superficiale, si può affermare che tutto sia normale. Tuttavia, signor avvocato, anche il tronco marcio dell’albero, fino a quando l’uragano non l’abbia spezzato in due, ha tutte le apparenze della solidità.
Isaac Asimov, Prima Fondazione.
Lessi il ciclo della Fondazione quando avevo la metà degli anni che ho ora. Ho ripreso in mano il libro con qualche esitazione, lo confesso. Mi sono bastate poche pagine per ritrovare tutto il fascino di questa saga. Non poteva essere diversamente, credo, con quello che è considerato il classico dei classici della fantascienza, nel quale è dipinto un affresco di storia galattica che ancora oggi mette le vertigini.
Nell’anno 12.069 dell’Era Galattica, l’Impero conta venticinque milioni di mondi abitati. Sul solo Trantor, il pianeta capitale, più di quaranta miliardi di individui vivono in un’immensa megalopoli che occupa tutta la superficie del pianeta, pari a 75 milioni di miglia quadrate. L’Impero Galattico, che ha 12 millenni di vita, pare al suo apogeo e i cinque milioni di miliardi di esseri umani che lo abitano sono tutti convinti che esso non avrà mai fine.
Tutti tranne un uomo, Hari Seldon, inventore di una scienza denominata “psicostoriografia”, una nuova branca della matematica “che studia le reazioni di un agglomerato umano a determinati stimoli sociali.” Postulato della nuova scienza è che l’agglomerato deve essere sufficientemente grande da consentire valide elaborazioni statistiche. Un secondo assunto è che la comunità esaminata deve essere all’oscuro dell’analisi psicostorica di cui è oggetto.
Hari Seldon prevede, su basi matematiche, l’imminente crollo dell’Impero Galattico e un successivo periodo di anarchia e barbarie della durata di trentamila anni. Contro questo destino, apparentemente ineluttabile, lo scienziato propone una soluzione: radunare centomila persone su un pianeta ai margini della Galassia perché siano il seme da cui possa sorgere il nuovo impero. Il caos verrà, perché nulla può fermare l’immensa forza inerziale dell’impero decadente, ma la sua durata potrà essere ridotta ad un solo millennio, grazie alle previsioni della psicostoriografia.
Isaac Asimov scrisse la Trilogia della Fondazione dal 1951 al 1953. L’ispirazione gli era venuta leggendo la monumentale opera di Gibbon sul declino dell’impero romano. Anni più tardi aggiunse un quarto libro (e poi un quinto) con cui il ciclo della Fondazione veniva a fondersi con l’altro grande filone narrativo di Asimov, quello dei robot. Negli ultimi anni della sua vita, infatti, Asimov lavorò per unificare in un unico universo narrativo i numerosissimi romanzi e racconti scritti durante la sua lunghissima carriera.
Oltre al piacere di leggere un capolavoro della fantascienza, il Ciclo della Fondazione di Asimov non può non lasciare un sottile senso di inquietudine. Ogni civiltà reputa di essere immortale mentre, come ogni fatto umano, anch’essa avrà una fine come ha avuto un inizio. Talora la consapevolezza della fine si diffonde prima della fine stessa e qualcuno ha modo di porre in salvo i semi che consentiranno una nuova rinascita. Altre volte la fine è così subitanea e imprevista da cogliere una civiltà totalmente impreparata. Così essa cade di schianto, come un albero lungamente minato al suo interno da microscopici parassiti, che viene improvvisamente spezzato dal vento.
Mi sembra utile, a questo proposito, chiudere con un’altra citazione. Si tratta di una poesia azteca, scritta da un autore ignoto, vissuto nella capitale del regno mesoamericano, la città di Mexico – Tenochtitlan. Ad essa i guerrieri giaguaro trascinavano in continuazione i prigionieri di guerra, consegnandoli ai sacerdoti perché fossero sacrificati al dio sole.
“Dal luogo dove si posano le aquile
dal luogo dove si innalzano i giaguari,
il Sole è invocato.
Come uno scudo che scende, così si va ponendo il sole,
in Messico sta cadendo la notte, la guerra mi circonda da tutte le parti,
oh datore di vita!
Si avvicina la guerra.
Orgogliosa di se stessa si solleva la città di Mexico – Tenochtitlan.
Qui nessuno teme la morte in guerra.
Questa è la nostra gloria.
Questo è il tuo ordine.
Oh, datore di vita!
Tenetelo presente, oh principi, non lo dimenticate.
Chi potrà assediare Tenochtitlan?
Chi potrà commuovere le fondamenta del Cielo?
Grazie alle nostre frecce, grazie ai nostri scudi, esiste la città.
Mexico Tenochtitlan vive!”
La poesia fu scritta alla fine del XV secolo. Per una crudele ironia del destino negli stessi anni tre caravelle spagnole toccavano terra a qualche centinaio di chilometri di distanza. Nemmeno trent’anni dopo della meravigliosa Mexico Tenochtitlan, dei suoi templi, dei suoi giardini e dei suoi canali non sarebbero restate che rovine fumanti, calpestate dai piedi dei castigliani di Cortés e dei suoi alleati indigeni.
E in tutto il Messico sarebbe riecheggiato un grido – di stupore, di gioia o di dolore – simile a quello che si ode nell’Apocalisse: «è caduta, è caduta, Babilonia la grande».
A guardare le cose in modo superficiale, si può affermare che tutto sia normale. Tuttavia, signor avvocato, anche il tronco marcio dell’albero, fino a quando l’uragano non l’abbia spezzato in due, ha tutte le apparenze della solidità.
Isaac Asimov, Prima Fondazione.
Lessi il ciclo della Fondazione quando avevo la metà degli anni che ho ora. Ho ripreso in mano il libro con qualche esitazione, lo confesso. Mi sono bastate poche pagine per ritrovare tutto il fascino di questa saga. Non poteva essere diversamente, credo, con quello che è considerato il classico dei classici della fantascienza, nel quale è dipinto un affresco di storia galattica che ancora oggi mette le vertigini.
Nell’anno 12.069 dell’Era Galattica, l’Impero conta venticinque milioni di mondi abitati. Sul solo Trantor, il pianeta capitale, più di quaranta miliardi di individui vivono in un’immensa megalopoli che occupa tutta la superficie del pianeta, pari a 75 milioni di miglia quadrate. L’Impero Galattico, che ha 12 millenni di vita, pare al suo apogeo e i cinque milioni di miliardi di esseri umani che lo abitano sono tutti convinti che esso non avrà mai fine.
Tutti tranne un uomo, Hari Seldon, inventore di una scienza denominata “psicostoriografia”, una nuova branca della matematica “che studia le reazioni di un agglomerato umano a determinati stimoli sociali.” Postulato della nuova scienza è che l’agglomerato deve essere sufficientemente grande da consentire valide elaborazioni statistiche. Un secondo assunto è che la comunità esaminata deve essere all’oscuro dell’analisi psicostorica di cui è oggetto.
Hari Seldon prevede, su basi matematiche, l’imminente crollo dell’Impero Galattico e un successivo periodo di anarchia e barbarie della durata di trentamila anni. Contro questo destino, apparentemente ineluttabile, lo scienziato propone una soluzione: radunare centomila persone su un pianeta ai margini della Galassia perché siano il seme da cui possa sorgere il nuovo impero. Il caos verrà, perché nulla può fermare l’immensa forza inerziale dell’impero decadente, ma la sua durata potrà essere ridotta ad un solo millennio, grazie alle previsioni della psicostoriografia.
Isaac Asimov scrisse la Trilogia della Fondazione dal 1951 al 1953. L’ispirazione gli era venuta leggendo la monumentale opera di Gibbon sul declino dell’impero romano. Anni più tardi aggiunse un quarto libro (e poi un quinto) con cui il ciclo della Fondazione veniva a fondersi con l’altro grande filone narrativo di Asimov, quello dei robot. Negli ultimi anni della sua vita, infatti, Asimov lavorò per unificare in un unico universo narrativo i numerosissimi romanzi e racconti scritti durante la sua lunghissima carriera.
Oltre al piacere di leggere un capolavoro della fantascienza, il Ciclo della Fondazione di Asimov non può non lasciare un sottile senso di inquietudine. Ogni civiltà reputa di essere immortale mentre, come ogni fatto umano, anch’essa avrà una fine come ha avuto un inizio. Talora la consapevolezza della fine si diffonde prima della fine stessa e qualcuno ha modo di porre in salvo i semi che consentiranno una nuova rinascita. Altre volte la fine è così subitanea e imprevista da cogliere una civiltà totalmente impreparata. Così essa cade di schianto, come un albero lungamente minato al suo interno da microscopici parassiti, che viene improvvisamente spezzato dal vento.
Mi sembra utile, a questo proposito, chiudere con un’altra citazione. Si tratta di una poesia azteca, scritta da un autore ignoto, vissuto nella capitale del regno mesoamericano, la città di Mexico – Tenochtitlan. Ad essa i guerrieri giaguaro trascinavano in continuazione i prigionieri di guerra, consegnandoli ai sacerdoti perché fossero sacrificati al dio sole.
“Dal luogo dove si posano le aquile
dal luogo dove si innalzano i giaguari,
il Sole è invocato.
Come uno scudo che scende, così si va ponendo il sole,
in Messico sta cadendo la notte, la guerra mi circonda da tutte le parti,
oh datore di vita!
Si avvicina la guerra.
Orgogliosa di se stessa si solleva la città di Mexico – Tenochtitlan.
Qui nessuno teme la morte in guerra.
Questa è la nostra gloria.
Questo è il tuo ordine.
Oh, datore di vita!
Tenetelo presente, oh principi, non lo dimenticate.
Chi potrà assediare Tenochtitlan?
Chi potrà commuovere le fondamenta del Cielo?
Grazie alle nostre frecce, grazie ai nostri scudi, esiste la città.
Mexico Tenochtitlan vive!”
La poesia fu scritta alla fine del XV secolo. Per una crudele ironia del destino negli stessi anni tre caravelle spagnole toccavano terra a qualche centinaio di chilometri di distanza. Nemmeno trent’anni dopo della meravigliosa Mexico Tenochtitlan, dei suoi templi, dei suoi giardini e dei suoi canali non sarebbero restate che rovine fumanti, calpestate dai piedi dei castigliani di Cortés e dei suoi alleati indigeni.
E in tutto il Messico sarebbe riecheggiato un grido – di stupore, di gioia o di dolore – simile a quello che si ode nell’Apocalisse: «è caduta, è caduta, Babilonia la grande».
sempre interessante!
RispondiEliminabuon inizio settimana
Ma quante cose interessantissime ci racconti, ogni volta!!! E' sempre tutto così affascinante!!!
RispondiElimina;-)
che bella quella poesia!
RispondiEliminaA questo punto non resta che mettere su il cartello "Benvenuti nel basso impero (attenzione ai crolli9"
RispondiEliminaHo studiato la città di Tenochtitlan per un esame denominato Metodi e tecniche della ricerca archeologica e ne sono rimasta affascinata.
RispondiEliminaLa scoperta dell'America ha segnato l'inizio di una nuova epoca ma, allo stesso tempo, ha determinato la fine di particolarissima civiltà.
Post interessante
Ciao ciao
@ Pupottina: buona settimana a te.
RispondiElimina@ Silvia: grazie, spero di trovare sempre nuovi argomenti... ;))
@ Terry: particolare, in effetti.
@ Tenar: concordo.
@ Stella: Tenochtitlan è descritta come una città bellissima (e la sua distruzione costò decine di migliaia di morti). Non credo però che avrei apprezzato i sacrifici umani che vi si svolgevano.
bravo alfa te si sai di cose buene alla ora di scribere, sempre mi chiedo perche in mexico c`ènome così di dificile anche per me come lo è tenochtitlan, sará per che questa non è la mia giurisdizione gia che quella è piu al nord
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