L’ultimo scalpellino se la ricordava ancora, pochi anni prima di morire.
Raccontava dei suoi viaggi, che l’avevano portato a girare il mondo lavorando il granito con i suoi scalpelli. Da Alzo era partito, assieme a molti emigranti, per innalzare la diga di Assuan, in Egitto. Non quella costruita dai sovietici, dagli anni cinquanta ma la vecchia, quella costruita dagli inglesi nel novecentodue, che dovette essere innalzata due volte: la prima nel 1907-12, la seconda nel 1929-33. Il vecchio scalpellino aveva partecipato a questi ultimi lavori e ne aveva portato ricordi e fotografie.
Lavoro duro, faticoso e difficile, quello dello scalpellino in cui era facile rimanere vittima di incidenti, oppure prendersi la silicosi per la polvere che giorno dopo giorno si depositava nei polmoni. Eppure era sopravvissuto a tutto e quasi centenario, eppure lucidissimo, leggeva ancora il giornale senza occhiali. Delle tante cose che aveva visto nel suo lavoro una in particolare emozionava ancora e gli faceva brillare gli occhi su quella simpatica faccia da saggio cinese.
«La torre!» esclamava. «Dovevate vedere la torre! Era bellissima. Si ergeva altissima in mezzo alle cave e noi lì sotto sembravamo formiche ai suoi piedi. Era uno spettacolo incredibile!»
I cavatori di Alzo l’avevano inconsciamente creata mina dopo mina. Anche quel lavoro aveva qualcosa di incredibile. Uomini che scalavano la roccia, aggrappandosi a corde o scalette portando sulle spalle le punte. Poi cominciavano a forare la roccia, centimetro dopo centimetro, con punte che potevano essere gradualmente allungate giuntandole con altre sbarre d’acciaio. Si procedeva lentamente e ogni volta la punta doveva essere girata di un quarto di giro. Dapprima a mano, poi, quando il peso dell’acciaio diventava immenso, utilizzando delle cinghie.
Poi, quando i fori erano sufficientemente lunghi, il minatore risaliva la parete portando in spalla un sacchetto di polvere nera di dieci chili. Doveva infilarla nel foro, stando ben attento a non provocare la minima scintilla, se non voleva essere proiettato nel vuoto e ricadere sulle rocce cento metri più sotto. Occorreva riempire numerosi fori profondi anche dieci metri, perciò i viaggi su e giù per le scale nessuno stava nemmeno a contarli.
Quando i fori erano pronti si sistemavano le micce, che non dovevano essere né troppo lunghe né troppo corte. Chi le accendeva doveva avere il tempo di scendere per mettersi al riparo, ma si doveva evitare che la miccia si spegnesse. Quello rappresentava l’incubo di ogni minatore. Dover salire là sopra, per togliere le micce, senza sapere se il fuoco si era spento o se attendeva solo il momento per lui propizio – un colpo di vento, un raggio di sole – per riprendere la sua corsa… C’era il rischio di trovarsi là sopra proprio mentre l’esplosione aveva successo, maledetta sfortuna.
Forse per questo la maggior parte dei minatori spendeva il proprio salario all’osteria o al bordello. Quale donna poteva reggere l’idea di non sapere mai se alla sera sarebbe venuto a casa il marito oppure qualcun altro, per consigliarle di resistere e di non andare a vedere cosa ne restava?
Indifferente alle sorti degli uomini che si affaticavano ai suoi piedi, la “Torre” se ne stava lì. Era come un monolite di pietra, un monumento eretto in memoria di quanti erano morti, si erano feriti o ammalati. Un monumento sacro, insomma, al punto che qualcuno cominciava a pensare che la Torre non fosse solo una formazione di granito creata dal caso. L’avevano liberata dalla roccia, ma lei era sempre stata lì, in attesa di quel giorno.
La sua bellezza era però valutata in modo diverso da altri occhi. C’erano centinaia, forse migliaia di metri cubi di ottimo granito bianco di Alzo nella Torre e il padrone della cava sapeva quanto poteva valere quella pietra per Loro. Di fronte a quel guadagno cos’era la bellezza? I marchi del Terzo Reich non erano più belli? Cos’era la sacralità di quel monumento? Era pronto ad abbattere anche il Santuario della Madonna del Sasso, in cima alla rupe, pur di cavare qualche tonnellata in più! Per riuscirci aveva già fatto di tutto: mentire, promettendo di ricostruirlo a sue spese più bello in un altro luogo; far mandare al confino quel fastidioso avvocato sovversivo che osava tentare di fermare il progresso. Cos’era la Torre di fronte al Santuario? Nulla, al massimo un monumento alla superstizione del popolo bue.
Perciò diede l’ordine: si abbatta la Torre!
I racconti del vecchio scalpellino. La Torre, parte prima.
I racconti del vecchio scalpellino. La Torre, parte seconda.
Il granito di Hitler.
Raccontava dei suoi viaggi, che l’avevano portato a girare il mondo lavorando il granito con i suoi scalpelli. Da Alzo era partito, assieme a molti emigranti, per innalzare la diga di Assuan, in Egitto. Non quella costruita dai sovietici, dagli anni cinquanta ma la vecchia, quella costruita dagli inglesi nel novecentodue, che dovette essere innalzata due volte: la prima nel 1907-12, la seconda nel 1929-33. Il vecchio scalpellino aveva partecipato a questi ultimi lavori e ne aveva portato ricordi e fotografie.
Lavoro duro, faticoso e difficile, quello dello scalpellino in cui era facile rimanere vittima di incidenti, oppure prendersi la silicosi per la polvere che giorno dopo giorno si depositava nei polmoni. Eppure era sopravvissuto a tutto e quasi centenario, eppure lucidissimo, leggeva ancora il giornale senza occhiali. Delle tante cose che aveva visto nel suo lavoro una in particolare emozionava ancora e gli faceva brillare gli occhi su quella simpatica faccia da saggio cinese.
«La torre!» esclamava. «Dovevate vedere la torre! Era bellissima. Si ergeva altissima in mezzo alle cave e noi lì sotto sembravamo formiche ai suoi piedi. Era uno spettacolo incredibile!»
I cavatori di Alzo l’avevano inconsciamente creata mina dopo mina. Anche quel lavoro aveva qualcosa di incredibile. Uomini che scalavano la roccia, aggrappandosi a corde o scalette portando sulle spalle le punte. Poi cominciavano a forare la roccia, centimetro dopo centimetro, con punte che potevano essere gradualmente allungate giuntandole con altre sbarre d’acciaio. Si procedeva lentamente e ogni volta la punta doveva essere girata di un quarto di giro. Dapprima a mano, poi, quando il peso dell’acciaio diventava immenso, utilizzando delle cinghie.
Poi, quando i fori erano sufficientemente lunghi, il minatore risaliva la parete portando in spalla un sacchetto di polvere nera di dieci chili. Doveva infilarla nel foro, stando ben attento a non provocare la minima scintilla, se non voleva essere proiettato nel vuoto e ricadere sulle rocce cento metri più sotto. Occorreva riempire numerosi fori profondi anche dieci metri, perciò i viaggi su e giù per le scale nessuno stava nemmeno a contarli.
Quando i fori erano pronti si sistemavano le micce, che non dovevano essere né troppo lunghe né troppo corte. Chi le accendeva doveva avere il tempo di scendere per mettersi al riparo, ma si doveva evitare che la miccia si spegnesse. Quello rappresentava l’incubo di ogni minatore. Dover salire là sopra, per togliere le micce, senza sapere se il fuoco si era spento o se attendeva solo il momento per lui propizio – un colpo di vento, un raggio di sole – per riprendere la sua corsa… C’era il rischio di trovarsi là sopra proprio mentre l’esplosione aveva successo, maledetta sfortuna.
Forse per questo la maggior parte dei minatori spendeva il proprio salario all’osteria o al bordello. Quale donna poteva reggere l’idea di non sapere mai se alla sera sarebbe venuto a casa il marito oppure qualcun altro, per consigliarle di resistere e di non andare a vedere cosa ne restava?
Indifferente alle sorti degli uomini che si affaticavano ai suoi piedi, la “Torre” se ne stava lì. Era come un monolite di pietra, un monumento eretto in memoria di quanti erano morti, si erano feriti o ammalati. Un monumento sacro, insomma, al punto che qualcuno cominciava a pensare che la Torre non fosse solo una formazione di granito creata dal caso. L’avevano liberata dalla roccia, ma lei era sempre stata lì, in attesa di quel giorno.
La sua bellezza era però valutata in modo diverso da altri occhi. C’erano centinaia, forse migliaia di metri cubi di ottimo granito bianco di Alzo nella Torre e il padrone della cava sapeva quanto poteva valere quella pietra per Loro. Di fronte a quel guadagno cos’era la bellezza? I marchi del Terzo Reich non erano più belli? Cos’era la sacralità di quel monumento? Era pronto ad abbattere anche il Santuario della Madonna del Sasso, in cima alla rupe, pur di cavare qualche tonnellata in più! Per riuscirci aveva già fatto di tutto: mentire, promettendo di ricostruirlo a sue spese più bello in un altro luogo; far mandare al confino quel fastidioso avvocato sovversivo che osava tentare di fermare il progresso. Cos’era la Torre di fronte al Santuario? Nulla, al massimo un monumento alla superstizione del popolo bue.
Perciò diede l’ordine: si abbatta la Torre!
I racconti del vecchio scalpellino. La Torre, parte prima.
I racconti del vecchio scalpellino. La Torre, parte seconda.
Il granito di Hitler.
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