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mercoledì 2 giugno 2010

La leggenda del cioccolato


Narra la leggenda che un giorno il Serpente Piumato, il grande dio bianco che aveva insegnato agli uomini a costruire i templi e coltivare la terra, fu indotto con l’inganno a bere una pozione avvelenata. Egli cadde malato e, per cercare la guarigione, decise di partire per una terra lontana.
Prima di partire, però, volle lasciare agli uomini il suo ultimo dono. Egli regalò loro il cibo degli dei, dicendo che si chiamava "xocolatl" e insegnando come doveva essere coltivato.
Quindi, promettendo che un giorno sarebbe tornato, salì su una nave che lo condusse oltre l’orizzonte, verso il tramonto.
Quando fu scomparso alla loro vista, gli uomini in sua memoria coltivarono la pianta, traendone una bevanda amara che, arricchita col peperoncino, era il complemento dei loro pasti. Lo "xocolatl" dava energia e i guerrieri lo bevevano in abbondanza prima di scendere in battaglia.
Un giorno dal mare occidentale giunse una strana nave. Su di essa stava un uomo dalla pelle chiara, accompagnato da uomini alti e dalla fluente barba, con il corpo e la testa ricoperti da lucenti scaglie di serpente, su cui svettavano piume meravigliose.
Allora il Re pensò che la profezia si stesse compiendo e che il Serpente Piumato fosse ritornato. Così gli mandò in dono lo "xocolatl" e oro ed argento e gemme preziose, invitandolo a riprendere possesso del suo regno.
Cortès e i suoi guerrieri spagnoli riempirono subito i forzieri coi preziosi, ma apprezzarono molto anche lo "xocolatl", che però preferirono far bollire e bere caldo. Quindi, pieni di energia, marciarono su Mexico per conquistarlo e depredarlo dei suoi tesori.
Fu così che lo "xocolatl" giunse in Europa, assieme agli altri tesori delle Americhe.

La leggenda dell'origine del cioccolato è stata proposta nella Bottega del mistero il 24 ottobre scorso.

lunedì 31 maggio 2010

Storie di cani e di gatti, di streghe e stregoni


Quante volte avete incontrato di notte, sul bordo della strada, un cane o, più probabilmente, un gatto. Nessuna casa nei paraggi, solo boschi ed oscurità.
“Cosa potrà mai fare un animale domestico in questo posto?” vi sarete chiesti, immaginando un randagio o ad un animale abbandonato.
Nella maggior parte dei casi avrete centrato la verità, dal momento che purtroppo sono ancora molti, troppi, i criminali che abbandonano quelli che per alcuni mesi erano stati loro compagni di vita. Eppure, in alcuni rarissimi casi, la realtà è ben diversa.

Aveva bevuto e si era tirato praticamente finito ballando al ritmo house sparato a palla. Non andava nemmeno troppo forte, in realtà, perché a malapena riusciva a tenere gli occhi aperti. Ad un certo punto, improvvisamente, vide davanti ai fari un cane nero in corsa.
Cercò di frenare, ma l’urto era inevitabile. La macchina sbandò paurosamente e per poco non finì fuori strada. Non scese nemmeno dalla macchina per controllare come stesse l’animale, ma appena si fu ripreso dallo spavento cercò d’ingranare la marcia. Quella però non voleva proprio saperne di entrare.
Faceva caldo quella sera ed il giovane guidava con il finestrino abbassato. Così non la vide arrivare, ma sentì chiaramente la mano che gli artigliava la spalla e lo scuoteva violentemente. Si girò e vide, a pochi centimetri dal suo volto, lo sguardo insanguinato e feroce di un uomo dalla testa di lupo.
Allora il giovane urlò e spalancò gli occhi.
Di fronte a lui c’erano i volti di due carabinieri che gli intimavano di alzarsi, vestirsi e seguirli.
Lo portarono via in manette, passando davanti al SUV che aveva posteggiato davanti a casa. La parte anteriore era visibilmente ammaccata e c’erano tracce di sangue sul paraurti. Mancava la targa, che era in mano ad uno dei carabinieri. Era stata trovata sul luogo dell’incidente che era costato la vita al prete del paese vicino.

Il giovane non lo sapeva, né lo sapevano i Carabinieri e al giudice non importava, ma si racconta che le streghe, per lo più vecchie donne, e gli stregoni, per lo più preti, possano praticare la “fisica”; che siano in grado di suscitare visioni; e che possano trasformarsi in cani ed in gatti per aggirarsi nelle tenebre a molestare le persone, rimanendo vittima, talora, dei loro stessi imbrogli.

martedì 25 maggio 2010

Case inquietanti e maledette





Il motel gestito da Norman Bates in Psyco (1960) di Alfred Hitchcock

Ci sono case piccole ed altre grandi. Alcune sono lussuosissime ed altre sembrano restare in piedi per miracolo. Ci sono case da sogno ed altre da incubo.

Vedete la vostra casa come un sicuro rifugio? Ebbene, oggi parleremo di case da cui, chi è entrato, non vede l’ora di fuggire. Case in cui ci sono soffitte polverose, in cui le ragnatele sono però l’ultimo dei problemi; dove le stanze sono tutte accessibili, tranne una, la cui porta è meglio non aprire; con cantine simili a labirinti in cui potreste perdere l’orientamento e trovarvi in luoghi che vanno oltre ogni orrore immaginabile.

Case così abbondano nei film e nei libri. Dimore piene di correnti d’aria, sinistramente infestate da spettri, come quelle descritte da Nathaniel Hawthorne in “La casa dai sette frontoni” (1851) o da Henry James in “Giro di vite” (1898) o da Guy de Maupassant in “L’Horla” (1887).
Assolutamente da evitare anche la “Casa delle streghe” di Lovecraft o il motel di “Psycho” (Robert Bloch, 1960). E se volete andare all’Overlook Hotel (“Shining”, di Stephen King, 1977) non fermatevi assolutamente oltre l’autunno. L’albergo, costruito su un cimitero indiano, è dotato di una personalità maligna, che si alimenta delle anime dei morti con violenza entro le sue mura: una lunga serie di omicidi e suicidi che ha riempito quelle vecchie mura di fantasmi. Andatevene alla chiusura della stagione estiva o l’Albergo tenterà con ogni mezzo di impadronirsi della vostra mente, come accadde allo scrittore alcolizzato Jack Torrance (interpretato sullo schermo da Jack Nicholson).




Jack Nicholson in Shining (1980) di Stanely Kubrik

Un ultimo consiglio (che spero non sia l’ultimo cui non prestate ascolto): se vi recate in uno chalet di montagna e trovate la registrazione della voce di un archeologo che dice di aver trovate una copia del malefico Necronomicon, datevela a gambe il più in fretta possibile, sempre che non sia già troppo tardi per lasciare "La Casa"…



Il n. 112 di Ocean Avenue ad Amityville

Dimore maledette, tuttavia, non esistono solo nei libri o nei film. Al n. 112 di Ocean Avenue nella città di Amityville, nello stato di New York, nel 1924 fu costruita una casa in stile coloniale olandese. Nel 1974 essa fu teatro di una spaventosa strage familiare. L’anno seguente, la famiglia che aveva deciso di abitarla fuggì in preda al panico, dopo che una serie di rumori, voci e apparizioni avevano attirato esperti del paranormale, sedicenti vampirologhi e strani personaggi. La storia ispirò anche un romanzo horror “Orrore ad Amityville” (1977) di Jay Anson e una pellicola di successo, due anni più tardi. È da notare però che la casa fu abitata in seguito da altre persone, che non registrarono altri fenomeni, salvo un’inquietante processione di curiosi. Molti ritengono che la vicenda sia una truffa.


Harry Price (1881-1948)

Il “Borley Rectory”, una sinistra costruzione che si ergeva isolata nelle campagne dell’Essex, venne definita “la casa più infestata dell’Inghilterra” da Harry Price, un celebre “detective dell’occulto” che operò nella prima metà del Novecento. Alla casa, piena di stanze, finestre murate e ali aggiunte in epoche diverse, pareva non mancare proprio nulla: rumori di cavalli fantasma al galoppo, mormorii, materializzazioni, scritte sulle pareti. In una delle camere appariva una creatura definita “la Forma Nera” che tra le altre cose emanava un fetore insopportabile. La casa fu distrutta nel 1939 da uno degli inspiegabili incendi che vi scoppiavano senza apparente motivo.


Ca' Dario a Venezia

Anche in Italia non mancano case che si sono guadagnate una reputazione sinistra. Ca’ Dario è un antico palazzo che si affaccia sul Canal Grande, all'imbocco del Rio delle Torreselle. La sua bellezza colpì l’inglese John Ruskin e il pittore francese Claude Monet, che lo ritrasse in una serie di dipinti.
Ca’ Dario, tuttavia, ha una terribile fama. Si dice infatti che molti dei suoi proprietari abbiano avuto una tragica fine. La figlia del mercante Giovanni Dario, che ne commissionò la costruzione (si dice su un antico cimitero templare) nel 1479, si suicidò in seguito al fallimento economico del marito, Giacomo Barbaro, che a sua volta morì assassinato. Il nipote, Vincenzo, fu ucciso a Creta.
L’ultimo discendente della casata dei Barbaro vendette la casa ad un mercante armeno di gioielli, che appena prese possesso della casa fece bancarotta. Il palazzo fu acquistato da un inglese, che vi si suicidò assieme al suo amante, dopo che la loro relazione era stata scoperta. Subentrò un americano, che a sua volta fu accusato di omosessualità e dovette fuggire in Messico, dove il suo compagno si suicidò.
Nel 1964 le trattative per la vendita al tenore Del Monaco si interruppero quando lo stesso fu vittima di un gravissimo incidente stradale mentre si stava recando a Venezia per chiudere l’affare. Il Conte che a quel punto acquistò il palazzo venne trovato morto, con la testa fracassata da un vaso. L’assassino, un marinaio diciottenne che viveva con lui, fuggì a Londra e fu a sua volta assassinato.
Cristopher «Kit» Lambert, manager della band inglese “The Who”, morì sempre a Londra, poco tempo dopo aver comprato il palazzo: era caduto dalle scale, si disse, ma qualcuno parlò di suicidio.
Ca’ Dario fu allora comprata da un affarista veneziano, che finì quasi subito in bancarotta, mentre la sorella, che viveva con lui, morì in uno strano incidente d’auto.
Alla fine degli anni Ottanta, il finanziere Raul Gardini comprò la casa. Nel 1993, travolto dalla tempesta giudiziaria di “Mani Pulite”, morì suicida in circostanze mai del tutto chiarite. Quattordici anni dopo, nel 2007, il gruppo Ferruzzi riuscì finalmente a vendere Ca’ Dario ad una multinazionale americana. Poco dopo scoppiò la bolla immobiliare e iniziò la crisi economica…



Il post è tratto dalla Bottega del Mistero, la mia rubrica sul blog di Siamo in Onda. Ve ne riproporrò prossimamente alcuni post.

Vi lascio con un'ultima immagine. Raffigura una casa che sorge dalle parti del Lago d'Orta. Mi era stata segnalata come "inquietante" nella sua enigmatica simmetria.




Dopo aver scattato la foto ho avuto la netta impressione che la tendina al primo piano si muovesse...

domenica 2 maggio 2010

La Bottega del Mistero


Da qualche tempo, sul Blog di Siamo in Onda ho aperto una “Bottega del Mistero”.
Chi conosce ed ha apprezzato la “Boutique del Mistero” non s’illuda, però. Non vi troverà racconti geniali come quelli del grandissimo Dino Buzzati.
La Bottega del Mistero, che si trova a Siamo in Onda, via etere, contiene ben altro.
Vi potete trovare rospagni urlanti e pellestrelli; alcune copie dei Manoscritti pnakotici; vecchi alambicchi per le pozioni spagiriche; alcuni animali improbabili; molte raccolte di leggende; e tante, forse troppe, parole.
Parole dette e scritte da varie mani; parole dettate al vento; parole arcane e misteriose; parole dette e parole che sarebbe stato opportuno o giusto o forse solo bello dire ma che per sorte o paura non vennero mai pronunciate.
Una bottega gestita insomma da un bizzarro affabulatore che la passione per la scrittura ha indotto ad alzare la serranda di questo strano luogo. Quasi ogni sabato la troverete aperta. L’ingresso è libero e se avete un po’ di pazienza vi potrà capitare l’occasione di ascoltare qualche buona storia o sfogliare qualche libro. Ho seri dubbi che vi comprerete qualcosa, anche perché la maggior parte delle cose esposte non sono in vendita e quelle che lo sono per lo più sono già state prenotate.
Se però, una volta usciti da qui, vi ritroverete senza sapere bene come con dei libri in mano alla cassa di una libreria, non stupitevi.
Probabilmente la colpa sarà di quella boccetta di Elisir di Curiosità che avete annusato nella bottega…

domenica 25 aprile 2010

lunedì 25 maggio 2009

Disfida 1 (beta): Inquietanti creature dei monti

Con questa prima disfida del secondo ciclo di storie affrontate, vi ripropongo le storie di due pericolose creature che infestano le montagne attorno al Lago d'Orta. Sono leggende raccontate dai vecchi, che a loro volta le ascoltarono da bambini.


L’Uriana

La prima storia è una leggenda della Valle Strona. Racconta di una misteriosa creatura delle acque, un babau utile a tenere lontani dall’acqua i bambini e talora anche i concorrenti da tenere alla larga.


Vive nelle acque dello Strona, ma non è un pesce.
È femmina, ma non è affascinante come una sirena.
Ha otto zampe, ma non è un ragno.

L’Uriana è vecchia, calva, brutta, ha gli occhi rossi e lunghi denti gialli e affilati, una lingua lunga che agita come una frusta, la parte inferiore del corpo coperta di squame.
Il suo cibo preferito? I bambini che si avvicinano troppo all’acqua.
«Stai lontano dall’acqua che l’Uriana ti mangia!» gridano le donne ai bambini che paiono irresistibilmente attratti dai viscidi sassi sulle sponde del torrente. «State molto lontani dalle rive, bambini, che esce l’Uriana col rastrello e vi tira dentro».

Molti giurano di averla vista emergere dalle acque gelide, con il suo aspetto spaventoso, i suoi artigli affilati, l’insaziabile fame di tenera carne di bambino. Lascia la grotta in cui, si dice, nasconde un tesoro favoloso, e si apposta nel fiume, col rastrello in mano, pronta a ghermire le sue prede.

L’Uriana però è di bocca buona e può accontentarsi anche di pesci, soprattutto quando i bambini si mostrano saggi e ubbidiscono agli ordini degli adulti. Per questo motivo infesta anche le lanche più pescose del torrente. Zone del torrente da cui anche gli adulti fanno bene a stare lontano. Così almeno raccontano certi pescatori…


Il pargolo rotolante dai dirupi

La seconda leggenda viene dalle montagne della Val Divedro, ma una creatura simile si aggira su pei monti del Cusio

Passeggiando sui monti della Val Divedro vi potrebbe capitare di vedere un bambino avvolto in fasce rotolare giù per un pendio; oppure trascinato dalla corrente impetuosa di un torrente. Piange, perde la fascia e urla disperato, facendo stringere il cuore.
È un istinto, un impulso irrefrenabile, soprattutto per le donne giovani e belle… che si ritrovano così avvinte tra le braccia di un giovane, biondo, audace e avvenente uomo.

Ora, prima che centinaia di donne in cerca di avventura si riversino da quelle parti a setacciare i torrenti e i pascoli, è bene dire una cosa: quella “cosa” è solo apparentemente “un giovane, biondo, audace e avvenente uomo”. In realtà è una creatura demoniaca, il cui scopo è quello di sedurre le donne specie - appunto - se giovani e belle, per riprodursi.

Il frutto di quei brevi momenti di passione alpestre però è, purtroppo, una creatura mostruosa, rivelatrice della vera natura dell’essere, così malvagio da far persino abortire le donne già in attesa per insediare, come un malefico cuculo, il proprio immondo discendente.

L’unico rimedio per tenere lontana tale orrida creatura, il cui nome è Vàina, è quello di tenere addosso almeno un oggetto benedetto.

sabato 18 ottobre 2008

Occhi gialli nell'oscurità




Un tempo si credeva che i preti potessero lanciare incantesimi.
“Fanno la fisica” si diceva.
Si credeva
anche che potessero trasformarsi in animali, per controllare i movimenti delle persone e sovente ostacolarli.
La pillola di mistero letta questa sera a Siamo in Onda
ripropone una di queste storie.




Era un giovane coraggioso; uno di quelli che non avevano paura a camminare di notte, nelle tenebre. E poi aveva ottime ragioni per salire fino all’alpe: c’era la sua morosa lassù e aveva voglia di vederla per fare all’amore con lei.

Camminava veloce, risalendo il sentiero come un salmone un torrente. Niente e nessuno avrebbe potuto fermarlo, nemmeno il diavolo in persona.
Forse questo l’aveva pure detto all’osteria, bevendo l’ultimo bicchiere prima di mettersi in cammino. O forse qualcuno del paese aveva deciso che quel ragazzo di fuori non doveva venire a parlare con una di loro, ma temendo di affrontarlo di persona aveva deciso di chiedere aiuto a qualcuno in grado di evocare un pauroso potere…

Sia come sia, nelle tenebre iniziò a vedere due occhi gialli che lo fissavano, in mezzo alla strada. Rallentò il passo: dalla nera sagoma del cane cominciò a provenire un ringhiare sordo. Avanzò e la bestia indietreggiò, ringhiando più forte. Faceva alcuni passi indietro, ma poi ringhiava più forte di prima, con l’aria di volergli saltare alla gola.
Allora il giovane, che temeva di arrivare tardi e trovare tutti ormai a letto e la morosa sotto le coperte a piangere, si arrabbiò così tanto che con pochi salti fu davanti al cane e gli sferrò un calcio così forte che lo fece guaire. La bestia fuggì zoppicando e gemendo, svanendo nelle tenebre.

Il giorno dopo il giovane seppe che il prete aveva un braccio rotto.

martedì 29 aprile 2008

La città dei misteri





La città dei misteri di Giacomo Fiori

"Non si sa se per snobismo o per altro, Arona ha avuto da sempre i suoi misteri, ma non si è accontentata dei soliti fantasmi con lenzuolo che appaiono con cigolii di catene ad ogni luna piena: le storie soprannaturali che hanno avuto come teatro la città, e ancora prima il borgo, sono di un’altra pasta, e spesso hanno lasciato tracce non solo nelle dicerie popolari, ma anche in più concreti documenti storici. Dalle alquanto irrequiete reliquie dei suoi martiri alle luci misteriose nel cielo della Rocca, dai parroci taumaturghi ai tunnel sotto il lago Maggiore, i “racconti del mistero” aronesi non sono né banali né déjà vu. Avvicinandosi ai giorni nostri le storie si tingono invece di giallo, e riguardano ad esempio le sfortunate vicende di generali risorgimentali, o di orafi dei giorni nostri in fuga dal mondo: non senza però un intermezzo che ha per protagonista proprio Carl Gustav Jung, uno dei padri della psicoanalisi. La città dei misteri, che continua la serie iniziata con Arona da scoprire e proseguita con Il torrente Vevera di Carlo Giuliani, ricostruisce queste vicende distribuite in un arco di tempo compreso fra l’anno Mille e la contemporaneità."

La città dei misteri
di Giacomo Fiori
Compagnia della Rocca Edizioni, Oleggio Castello, 2007
pagine 40, euro 10,00
ISBN 978-88-901894-2-5




La pubblicazione, patrocinata dalla CITTÀ DI ARONA, è stata realizzata con il contributo di:
LUIGI GUFFANTI 1876 - formaggi per tradizione - via Milano 140, Arona
OTTICA WOLF - ottica, lenti a contatto, ipovisione - corso Repubblica 86, Arona
VICARI - casalinghi e articoli da regalo - corso Cavour 125, Arona
TIPOLITOGRAFIA ALA - stampa tipografica e digitale - via Vittorio Veneto 21, Arona

sabato 26 aprile 2008

Le parole fanno paura

Era una sera di uno degli ultimi anni del Medioevo. O forse era un giorno di mercato, giornata in cui le voci e le dicerie volano come foglie al vento. Non lo sappiamo con esattezza. Di certo Colombo non era ancora salpato per le Indie e in Italia fioriva l’umanesimo. Sulla Riviera di San Giulio governava il Vescovo Conte di Novara, il cui Castellano amministrava la giustizia dalla fortezza dell’isola di San Giulio, un tetro carcere e luogo di esecuzioni. Normale amministrazione in un’epoca di violenza, dove la giustizia era amministrata in modo sempre esemplare e spesso casuale.

La voce corse rapidamente: per celia o per far dispetto a quelli dell’Isola di San Giulio, che se ne stavano rinchiusi dietro il Muro della Regina e scuotevano la testa guardando Orta, alcuni giovani, di Orta naturalmente, avevano cominciato a chiamare il lago “d’Orta”, non più “di San Giulio”.
Del resto, lo dicevano tutti, Orta era molto cresciuta negli ultimi cinque secoli e ormai prevaleva sulla piccola Isola, abitata soprattutto dai Canonici, dagli uomini del Vescovo e dalla loro servitù.

I più sorrisero di quella nuova moda, i giovani, si sa, sono sempre alla ricerca di novità. Gli anziani scuotevano la testa: da più di mille anni il lago era detto di San Giulio, non sarebbero stati certo alcuni giovani a cambiare il mondo.

La cosa però giunse all’orecchio di qualcuno che non scosse la testa; qualcuno di quelli che sanno cogliere i segni dell’aurora ben prima che il sole inizi a fare capolino; qualcuno che comprese che dietro quella piccola, apparentemente banale frase, si poteva celare una minaccia. Forse, addirittura, un complotto teso a spazzare via un ordine secolare.

Perché dopo mille anni qualcuno aveva deciso di cambiare quel nome?

Le parole sono importanti”, spiegò a quanti lo guardavano stupiti. “I nomi danno il senso alle cose. Quando il Santo Giulio giunse sul lago, più di dieci secoli fa, cancellò per sempre il nome antico che i pagani avevano dato a queste acque, spazzandolo via assieme ai draghi, ai serpenti e agli dei falsi e bugiardi!

La sua voce tuonava nella basilica dell’Isola e chi lo ascoltava andava con lo sguardo agli affreschi, come per cercare protezione in quella figura armata di bastone che navigava sicuro sul proprio mantello, alla volta di un’isola infestata come una bolgia infernale. Un brivido percorreva la schiena di quanti avevano visto l’enorme vertebra appesa nella sacrestia, che alcuni giuravano, soprattutto quando ad ascoltarli erano creduli curiosi giunti in pellegrinaggio sull’isola, essere appartenuta ad uno di quei draghi.

Il Signore di questo lago, del Lago di San Giulio, è il Vescovo di Novara. Solo la protezione della Santa Chiesa assicura la libertà di queste terre dalle mire del Duca di Milano e dei suoi vassalli, che volentieri imporrebbero le loro tasse su questa piccola patria, come già fa ad Omegna.

Questo argomento fece presa su molti ascoltatori, che scossero la testa, pensando alle loro ricchezze, inesorabilmente divorate dalle pretese dei feudatari laici. Il Vescovo di Novara teneva famiglia, come tutti, questo era vero, ma quanto meno non aveva modo di fare guerre a nessuno. E le guerre si sa costano e per sostenere gli eserciti si devono imporre tasse, taglie, dazi, balzelli e confische; e quando tutto ciò non basta più e le casse sono vuote si passa facilmente al sequestro dei notabili e al saccheggio.

Chiamare il lago 'd’Orta' e non di 'San Giulio' è un modo per insinuare che il potere può essere laico e non religioso. È un modo per insinuare che il Vescovo può essere sostituito da un feudatario laico. Di più è un modo per aprire la strada al Duca di Milano e alle sue tasse!

La misura era colma, non si poteva rimanere inerti di fronte ad una simile minaccia! Occorreva fare qualcosa, subito. Si implorò il vescovo di porre mano alla cosa ed egli, benignamente, emise una grida, con cui si vietava ai sudditi della Riviera di San Giulio, sotto pena di sanzione, di chiamare il lago o scriverne il nome su qualunque documento, altro che "Lago di San Giulio".

I giovani di Orta però non si impressionarono più di tanto. Divenuti anziani ancora continuavano a chiamare il lago “d’Orta” nelle loro chiacchiere, benché nei documenti ufficiali scrivessero “lago di San Giulio”.

Alla fine gli eventi resero anacronistico il potere del Vescovo, che spontaneamente consegnò il feudo, in cambio di una ricca buonuscita, nelle mani non di un Duca, ma di un Re. E questi, come aveva facilmente profetizzato il predicatore duecento anni prima, subito impose nuove tasse.

I racconti del partigiano. I Muraglioni degli Inglesi

Sono mura alte, di pietra legata con cemento. Sembrano non finire mai, proseguendo per chilometri a cingere uno spazio privato. Li chiamano i Muraglioni degli Inglesi, o semplicemente i Muraglioni. Separano fisicamente i paesi di Gozzano e San Maurizio d'Opaglio racchiudendo un’enorme area verde. Furono costruiti, si racconta dagli Inglesi.
«Ma no, non quegli Inglesi!» ride il Partigiano. «Quelli venivano dal sud con gli Americani e quando arrivarono qui la guerra era già finita. E poi i Muraglioni esistevano dal secolo precedente. Una famiglia inglese, nell’Ottocento, aveva comprato quella terra, recintandola con un muro altissimo, per tenere fuori gli intrusi. Al tempo della guerra però gli inglesi non c’erano più. Il parco della villa era stato riempito di bidoni di carburante. Per evitare che la Petroliera, com’era chiamato il grande deposito militare di carburanti a Gozzano, potesse saltare in aria per un bombardamento alleato. Così c’erano bidoni sepolti nel terreno un po’ dappertutto e siccome il carburante scarseggiava di notte c’era chi andava a prenderselo. A suo rischio e pericolo. I fascisti avevano insediato un presidio nella Petroliera e da lì, in teoria, controllavano il territorio. In realtà, dai Muraglioni in su per loro iniziava il territorio nemico (Achtung Bandengerfahr, avvertiva il cartello). Al punto che a metà dei muraglioni i fascisti avevano pensato di creare un posto di blocco, sbarrando in parte la strada. Solo che, di notte, avevano paura a starci, perché i partigiani potevano giocare al tiro a segno con loro come bersagli. Così al calare del buio si ritiravano nella Petroliera e i partigiani prendevano possesso del posto di confine. All’alba i partigiani tornavano sulle montagne e i fascisti riprendevano il controllo!»
Sorride, come fosse stato un gioco. In un certo senso lo era, come quello del Cavaliere che giocava a scacchi con la Morte…
Di notte si potevano anche tentare audaci colpi. Per farlo, però, occorreva un mezzo di trasporto. Un carro era l’ideale, ma i partigiani non potevano certo tenere carri e cavalli sulle montagne. Così li prendevano a prestito.
Una notte una donna fu svegliata dal rumore di qualcuno che picchiava all’uscio. Erano i partigiani. Volevano il carro e il cavallo per andare a Gozzano a rubare l’olio nella ditta Bemberg. Le avrebbero dato un po’ di olio in cambio.
«Prendete quello che vi serve» rispose la donna «ma l’olio non lo voglio, che poi finisco nei guai.»
Il mattino dopo il cavallo e il carro erano davanti al cancello, senza tracce di olio. Il cavallo aveva l’aria stanca di chi ha avuto una notte di fatica e paura.

Lo stesso cavallo, che si chiamava Bigio, fu protagonista di un’avventura un po’ bizzarra, sempre nei pressi dei muraglioni. Il marito della donna era riuscito, chissà come e chissà dove (non lo disse mai) a procurarsi un carico di patate. Col carro carico se ne andava da Gozzano a San Maurizio d'Opaglio con l’aria soddisfatta di chi è riuscito a fare un buon affare.
Davanti alla Petroliera, però, fu fermato da una sentinella fascista. Era un giovane dallo sguardo feroce e la faccia da fame, che guardò il carico e guardò il cavallo. Poi disse di non muoversi e andò nel presidio a chiamare qualcuno.
L’uomo (e probabilmente anche il cavallo) capì che con un mucchio di patate di provenienza sospetta e un cavallo requisito in quanto mezzo di trasporto per il corpo del reato è possibile sfamare tante bocche. Quelli poi erano tempi di fame nera, anche per i soldati…
Senza pensarci due volte spronò il cavallo a tutta briglia tagliando per le brughiere, per evitare il posto di blocco ai Muraglioni.
Era un cavallo da tiro il Bigio, non da corsa, ma quel giorno, fosse la frusta o la paura di finire in pentola, avrebbe dato dei punti a qualunque cavallo di razza.

I racconti del partigiano. Guerra sul lago

Decisamente il lago di questa storia è un lago diverso da come lo conosciamo.
Non più di tanto nell’aspetto, forse. Certo ai tempi di questa storia le cave di granito non erano ancora invase dalla vegetazione, che anno dopo anno conquista metri di cava, come rimarginando una bianca ferita. E, ancora, non c’erano molte fabbriche a turbare l’orizzonte.

No, il lago era diverso allora, ma non per i panorami. Erano le donne e gli uomini ad essere diversi in quegli anni. Sì, perché allora c’era la guerra.
Era una strana guerra quella, perché i fronti non erano apertamente contrapposti. Potevi attraversarli senza neanche accorgertene e senza rendertene conto potevi trovarti di faccia alla morte. Bastava poco, bastava aiutare qualcuno, o parlare troppo, oppure troppo poco oppure, banalmente, essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Perché quella era una guerra dove le uniformi non contavano e non c’era distinzione tra soldati e civili, né tra uomini e donne. Era guerra partigiana quella. Di resistenza per gli uni, di banditismo per gli altri.

“Il confine si trovava ai Muraglioni degli Inglesi. Nella Petroliera c’era il presidio. Sull’isola di San Giulio il comando dei Servizi segreti. Sul lago giravano barche di miliziani armati…”
Mi gira la testa. Faccio fatica a riconoscere i luoghi a comprendere le situazioni, ad immaginarmi soldati, armi, spie, posti di confine. Non è il mio mondo quello, penso. Poi ci ripenso. Quello è il mio mondo, perché se non ci fosse stato quello oggi vivrei in un universo parallelo i cui contorni mi mettono i brividi.
Chi mi parla è un ex partigiano, classe 1921. Uno di quelli che liberarono Domodossola nell’agosto del 1944. Uno della Valtoce, per intenderci.
È incredibile quanti episodi siano accaduti dal settembre 1943 all’aprile 1945. Non sono neanche venti mesi, ma sembrano venti anni. Sarà, che quando vedi la Morte venirti incontro, il tempo inizia a rallentare e accelera di nuovo solo quando ti è passata accanto, talora ghermendo qualcuno che ti era vicino.
Quanti libri sono stati scritti su questi eventi? Nessuno lo sa, credo. Molti protagonisti hanno raccontato la loro storia, molti non hanno voluto, o potuto. Così molti dettagli se ne vanno con loro, spengendosi uno ad uno. Dettagli. Nessuno di essi farà riscrivere la Storia. Alcuni però aiutano a capire cosa sia stata la guerra per chi l’ha vissuta.

La veridica storia del drago dell’isola

Introduzione.
Tutti sanno che l’isola era infestata da draghi e serpenti prima che San Giulio la liberasse.
La Leggenda del Santo Giulio ha tramandato, però, solo una parte della vicenda. La faticosa traduzione di libri consegnatimi da un inquietante visitatore, consente ora di dare un nome e un volto, anzi due come diremo più avanti, al più temibile dei numerosi draghi che vivevano su quel minuscolo scoglio.
Tale scoperta, la cui rilevanza sarà presto evidente agli occhi del lettore, getta nuova luce su molte vicende passate e presenti di questo territorio, insieme così bello e così pieno di contraddizioni.

Oggi è possibile dire che, tra gli innumerevoli serpenti e draghi che infestavano l’isola, il più temibile era uno strano animale dal corpo di rettile. Guardandolo di profilo avreste visto, ad un’estremità una testa da rettile. All’altra estremità un’altra testa, assolutamente identica alla prima.
L’attento lettore di Lucano, Plinio, Dante o Borges, per citare alcuni degli autori che ne hanno parlato, crederà di riconoscere in questa descrizione un particolare serpente a due teste, l’anfisbena. Detto anche anfesibena il suo nome è un composto dalle parole greche amfis e bainein, che significa “che va in due direzioni”. L’archeologo riscontrerà la somiglianza con alcune raffigurazioni, ampiamente diffuse nel mondo, di serpenti a due teste.
L’anfisbena è, citando le parole di Brunetto Latini, «un serpente con due teste, una al suo posto e l’altra sulla coda, e con entrambe può mordere, e corre con prestezza, e gli occhi brillano come candele.» Per altri Autori l’anfisbena sarebbe dotata di zampe, ma per correre avrebbe inventato la ruota: una testa entrerebbe nella bocca all’altra estremità e, facendosi cerchio, l’anfisbena potrebbe così correre velocissima.
L’animale di cui stiamo parlando, però, non è un’anfisbena. Certo, la nostra scarsa conoscenza di quella sorta di groviglio di rettili che doveva essere l’isola nei tempi precristiani non consente di escludere che pure l’anfisbena fosse presente. Per quanto, è bene sottolinearlo, l’habitat naturale dell’anfisbena sia, secondo Lucano, il deserto, non certo un’area umida come il Cusio.
Ad ogni modo, ciò di cui striamo parlando non è un serpente, ma un drago. Un drago… un essere cioè intelligente, dotato di parola, astuto, crudele. Un drago, dallo sguardo più mortale del Basilisco, più longevo dell’Ourumboros, più velenoso di una miriade di serpenti, più astuto di una coorte di draghi di fuoco. Talmente invulnerabile da non poter essere ucciso in alcun modo e così longevo da poter sopravvivere alla morte delle stelle.
Questo mostro porta il nome di Aöa.


Bestiario: l’Aöa
Di seguito si fornisce una scheda sintetica sulle caratteristiche fisiche dell’Aöa.
Nome: Aöa
Specie: Aöa Imperialis
Genere: Draconidi
Lunghezza massima stimata: 45 metri
Diametro massimo stimato: 50 cm
Colore: verde.
Velenosità: elevata. Si calcola che poche gocce di veleno siano sufficienti ad avvelenare migliaia di persone.
Alimentazione: onnivoro (?)
Età massima: 666 eoni (?)
Riproduzione: sconosciuta.
Esemplari viventi: 1 (?).
Ultimo avvistamento: Lago d’Orta, 390 d.C.

L’Aöa è una creatura talmente rara, per fortuna della specie umana, da essere considerata leggendaria dagli stessi dragoni. Lo studio attento dei manoscritti consente ora di aprire uno spiraglio di conoscenza sulle abitudini di vita dell’Aöa.
La prima caratteristica che colpisce l’osservatore è il fatto che l’animale resti, quasi permanentemente, in una posizione che si potrebbe definire “a semicerchio” o “ad U”. Poggiato il ventre a terra, rizza entrambi i colli che rimangono in posizione più o meno verticale, talora avvicinandosi, talora allontanandosi.
Un aspetto a prima vista inspiegabile è il fatto che le due teste, anziché guardare in direzioni diverse per avvistare eventuali prede o nemici, si guardano fisse, l’un l’altra.
Ad un esame più attento il fatto suscita tre considerazioni immediate:
1. L’animale, che come si è detto è invulnerabile, non teme alcun nemico e pertanto non deve prestare alcuna attenzione a ciò che lo circonda.
2. Verosimilmente l’animale non ha bisogno nemmeno di nutrirsi, ovvero può resistere per tempi lunghissimi senza cibarsi. Pertanto può ignorare le eventuali prede che lo circondano.
3. Poiché i quattro occhi dell’animale rimangono fissi a guardarsi a coppie, attorno all’Aöa potevano muoversi serpenti, draghi e altre creature senza correre il rischio di venire tramutati in cenere dal suo sguardo.

La seconda caratteristica è lo strano verso che produce l’animale. Di tanto in tanto una delle teste, indifferentemente quella di destra o quella di sinistra, pronuncia un semplice suono: “AO!”. Al che l’altra testa risponde: “OA!”.
Secondo una suggestiva ipotesi, peraltro non verificata, il nome dell’animale deriverebbe proprio da questo curioso richiamo.
Dopo aver lanciato il richiamo le due teste cominciano un fitto dialogo che vede talora l’alternanza di voce tra l’una e l’altra. Più spesso una sovrapposizione cacofonica, difficilmente comprensibile.


Alcune note storico critiche sulla “Veridica Storia del Drago dell’Isola”.
Tra le carte che ho complessivamente denominato “Derakolion” è stato possibile individuare un frammento di un’antica cronaca anonima, che è l’unica fonte attualmente disponibile sull’Aöa.
È ancora difficile, allo stato attuale della ricerca, proporre un inquadramento soddisfacente per questo testo. Si consideri infatti che esso è una citazione, tradotta dall’anonimo compilatore del “Derakolion” in un misterioso linguaggio e alfabeto, che definisco provvisoriamente gondauniano. Gondaun è infatti il nome del mondo da cui esso, quasi certamente, proviene.
Tuttavia, se è corretta l’identificazione del destinatario dell’opera (“Ambrosius Episcopus”) con il Vescovo di Milano, Aurelio Ambrogio (339 – 397 d.C.), la “Veridica Storia del Drago dell’Isola”, come potremmo definirla, potrebbe essere stata scritta pochissimi anni dopo gli eventi.


Iulius e l’Aöa. Traduzione della “Veridica Storia del Drago dell’Isola”.
«Dopo aver raggiunto lo scoglio nel modo descritto precedentemente[1], Presbiterus Julius [2] si inginocchiò e piantò a terra la croce. I draghi spaventati si ritrassero sulla sommità dello scoglio. Invocato il nome di Cristo, tutte le creature fuggirono in preda al panico tranne una. Se ne stava sulla sommità dello scoglio, alzando entrambe le teste al cielo. Aöa era il suo nome e da tempo il terrore della sua vista terrorizzava i pagani, così che nessuna barca ardiva avvicinarsi a meno di un tiro di freccia dall’isola.
Presbiterus Julius si alzò in piedi e puntando il bastone contro la bestia immonda cominciò ad invocare Dio perché la cacciasse da quel luogo. Per mettere alla prova la sua fede Dio non volle esaudire subito quella preghiera. La bestia restava immobile e le due immonde teste continuavano a fissarsi, emettendo suoni incomprensibili.
Allora Presbiterus Julius, invocando Dio, scalò la roccia e si avvicinò alla bestia. Quindi alzò il bastone e colpì il corpo dell’animale. Il legno rimbalzò sulle squame, ma l’Aöa non diede nemmeno segno di essersi accorta della sua presenza.
Invocando l’aiuto di Dio, degli Apostoli e della Madre di Cristo Presbiterus Julius prese un lungo tronco che giaceva lì accanto e, infilatolo sotto il corpo della bestia, lo adoperò a modo di leva, usando una pietra come base. Infine riuscì a far precipitare l’Aöa dalla rupe fin nelle acque del lago, dove affondò, senza interrompere il proprio strepito.
Mirabile a vedersi! Al posto del Drago si trovò una cosa che certamente potrà interessare un uomo della vostra cultura, Episcopus Ambrosius. Cacciata l’Aöa venne infatti alla luce un nodo della schiena di un grande animale, che Presbiterus Julius fece poi chiudere in una grotta tra gli orti della penisola di fronte allo scoglio.»

Note:
[1] Il riferimento fa presupporre che il brano sia tratto da un testo più lungo.
[2] È probabile che il traduttore abbia inteso i due termini come un unico nome proprio, come più avanti per “Episcopus Ambrosius”.


Alcune considerazioni dell’anonimo compilatore del Derakolion sull’Aöa
Allegata alla citazione della “Veridica Storia del Drago dell’Isola” ho rinvenuto alcune brevi considerazioni scritte dall’anonimo compilatore del Derakolion sull’Aöa.
«Lo strano animale conosciuto come Aöa incarna meglio di ogni altro l’immagine di “Signori della Discordia” attribuito ai draghi. Non avendo nemici naturali l’Aöa ha un unico nemico: se stesso. Ciascuna testa è in perenne conflitto con l’altra, che fissa incessantemente per prevenirne ogni mossa. Ciò che fa la destra, la sinistra disfa, e viceversa. Se la sinistra dice “bianco”, l’altra risponderà “nero”. E quando la destra dirà “bianco” sarà la sinistra a dire “nero”. Ciò nondimeno l’Aöa resta una creatura molto pericolosa, in quanto sparge il suo veleno appestando, non i corpi, ma le menti degli uomini.»

Alcune considerazioni conclusive sull’Aöa
Alla luce di quanto detto sopra è possibile tentare una ricostruzione dei fatti accaduti sull’isola all’arrivo di Giulio di Egina e dare una spiegazione all’enigmatico comportamento dell’Aöa.
Quando venne lanciato l’esorcismo l’Aöa non si mosse perché semplicemente non lo sentì. Non possiamo affermare che l’Aöa sia sorda. Non in senso medico, almeno. Le due teste erano però probabilmente immerse in una delle loro interminabili diatribe (il che spiegherebbe il confuso vociare avvertito da Giulio). Troppo intente a sovrastarsi l’un l’altra non si accorsero nemmeno dell’arrivo della nuova creatura. Oppure, cosa altrettanto probabile, furono ulteriormente eccitate dal fatto di avere uno spettatore in più.
Si spiegherebbe così tra l’altro il diverso comportamento degli altri draghi e serpenti, forse persino un po’ esasperati dal continuo berciare dell’Aöa, che abbandonarono precipitosamente il luogo lasciando l’Aöa sola con Giulio.
Ma quale argomento era oggetto della diatriba tra le due teste dell’Aöa? Nessuno lo sa, evidentemente. Troppo tempo è passato da allora e l’unico testimone riposa da secoli nella pace del Signore.
È possibile però formulare due ipotesi.

La prima è che la diatriba sia stata scatenata proprio dall’arrivo dell’uomo. Con un po’ di fantasia potremmo persino ricostruire il dialogo intercorso tra le due teste.
Testa 1: «Ao!»
Testa 2: «Oa!»
T1: «Sull’isola è sbarcato un uomo!»
T2: «No! Dall’isola se ne sta andando via una donna!»
T1: «Maledetta figlia di un uovo andato a male! Ti pare una donna quella! Ha la barba!»
T2: «Patetico scarto di un germe difettoso! Come se non avessi mai visto donne con la barba o persino coi baffi! Piuttosto, secondo me, quella donna vorrebbe cacciarci da qui!»
T1: «Quanta fantasia hai! Quell’uomo è venuto ad adorarmi, offrendosi in olocausto per me!»
T2: «La solita egoista! Perché non dovrebbe essere venuto per me?»
T1: «Lo vedi che ammetti che si tratta di un uomo che è venuto sull’isola!»
T2: «Le tue argomentazioni sono ridicole e i tuoi insulti dimostrano quanto sei a corto di argomenti…»
È probabile che la disputa non sia stata interrotta nemmeno dalla caduta nelle fredde acque del lago, che potrebbe anzi aver fornito nuovi argomenti di discussione.

Una seconda ipotesi verte sul ritrovamento della vertebra nel luogo dove si rizzava l’Aöa. È possibile che l’osso fosse stato portato in quel luogo da uno dei draghi alati e che le due teste dell’Aöa avessero iniziato a discutere a quale specie dovesse appartenere, se a un “drago”, ad un “mesentere”, o ad una “balena” (e in quest’ultimo caso a quale specie di “balena”?). È probabile che anche in questo caso la discussione continui tuttora.

Un’ultima considerazione. Nei 1618 anni trascorsi nelle acque del lago è probabile che l’Aöa abbia continuato a diffondere il proprio veleno nelle acque. Ciò spiegherebbe il comportamento di molti abitanti del Cusio, che paiono perennemente impegnati a contraddire, contrastare e disfare quanto viene fatto dagli altri. E pensando al fatto che le acque del Lago d’Orta scorrono di lago in fiume fino al mare, la contaminazione del veleno dell’Aöa potrebbe aver raggiunto ormai le terre più lontane.

L'immagine è stata disegnata da ELE, che ringrazio.

I racconti del vecchio scalpellino: il granito di Hitler.

Nel racconto del vecchio scalpellino c’era un episodio legato all’abbattimento della Torre.
Il granito ricavato dalla Torre fu destinato a soddisfare un ordinativo proveniente dalla Germania. Raccontando questa storia occorre lasciare per un po’ il lago dei misteri e spostarsi in quella che fu, per alcuni anni, la capitale dell’impero del male.
Il sogno visionario di Adolf Hitler fu un incubo per milioni di persone, anche se trovò migliaia di fanatici e volonterosi seguaci. L’imbianchino austriaco coltivò per tutta la vita velleità artistiche. Qualcuno ha sostento che se avesse potuto trovare il successo in quel campo il mondo non sarebbe diventata la tela su cui avrebbe dipinto col sangue le sue visioni.
Dal punto di vista artistico, il suo maggiore collaboratore fu Albert Speer. Egli fu architetto di Hitler dal 1934 al 1942, anno in cui venne nominato ministro dell'industria bellica. Il rapporto tra i due è oscuro e misterioso e molti storici hanno tentato di spiegarlo. Certamente Speer fu colui che cercò di tradurre le visioni di Hitler in veri progetti architettonici.
Tra questi, il più imponente e per molti versi inquietante è il progetto di edificazione di Germania (Ghermania). La città avrebbe dovuto essere la nuova capitale del Reich millenario sognato da Hitler. Questa città da incubo avrebbe dovuto sorgere sulle rovine di Berlino. Hitler e Speer non si proponevano infatti di sviluppare la città che avevano ereditato dalla storia. Intendevano piuttosto sostituirla con un nuovo centro di culto, che Speer non esitava a definire una “nuova Mecca”.
La nuova città avrebbe dovuto sorgere nel 1950 sulle rovine della vecchia Berlino (al punto che Hitler all’inizio accolse favorevolmente gli attacchi aerei alleati perché avrebbero fatto risparmiare sui lavori di demolizione).
Ogni modello doveva essere superato, in quanto il vero obiettivo era proprio quello di far impallidire al confronto Parigi, Vienna e Roma, cui la nuova città si sarebbe ispirata.
La Zeppelintribüne di Norimberga doveva essere più grossa delle Terme di Caracalla; la Kuppelhalle di Berlino doveva essere più grossa della cupola di S. Pietro; l'Arco di Trionfo doveva essere più grosso di quello di Parigi.
Una vera ossessione per le dimensioni, che seguiva un preciso criterio.
«Sempre il più grosso» era il parametro di Hitler per stabilire la dimensione degli edifici. «Lo faccio per restituire al singolo tedesco la consapevolezza del proprio valore. Per dire al singolo in tutti i campi: noi non siamo affatto inferiori, al contrario, noi siamo assolutamente uguali a qualsiasi altro popolo.»
Era un’architettura dalla monumentalità estensiva, perseguita con l’obiettivo del puro “record”, con edifici piuttosto mastodontici che maestosi.
Speer, dal 1937 “Ispettore generale per la nuova strutturazione della capitale del Reich”, progettò i diversi palazzi in pietra massiccia, sulla base della sua personale teoria del “valore delle rovine”. Gli edifici erano pensati fin dall’inizio a come sarebbero stati in forma di rovina. Per questo si evitò il più possibile l’acciaio, che sarebbe arrugginito, scegliendo invece le pietre naturali, che avrebbero fatto assomigliare i monumenti alle rovine romane.
Il granito, pietra eccezionalmente dura e resistente, fu scelto come il materiale più idoneo a costruire gli edifici della nuova capitale. Per questo vennero individuate cave di granito in ogni parte d’Europa che avrebbero dovuto fornire il materiale. Idealmente, camminando sulle lastre dei migliori graniti d’Europa, i nazisti avrebbero calpestato tutto il continente.
Anche ad Alzo giunsero gli architetti di Hitler. Il granito della Torre venne pazientemente squadrato nei formati richiesti. Gli scalpellini italiani erano stupiti e preoccupati dalla precisione germanica, che non tollerava che i pezzi fossero mezzo centimetro più larghi o più stretti di quanto ordinato…
Poi venne la guerra e la peste nazista, finalmente, finì. Della città immaginata per un impero immaginario non rimase pietra su pietra.
Il padrone delle cave dovette fuggire in sud America. L’attività estrattiva ad Alzo entrò in una crisi irreversibile. Molti scalpellini persero il lavoro. I pochi che continuavano vedevano i loro figli preferire la fabbrica alla cava.
Il vecchio scalpellino che aveva visto la Torre ergersi in tutta la sua maestosità ne parlava con rispetto, come se non fosse una semplice formazione rocciosa dovuta ad un caso capriccioso. Non lo disse, ma ho ragione di credere che pensasse alla Torre come a qualcosa di vivo. Come se gli scalpellini, senza rendersene conto, avessero messo a nudo il cuore della rupe e avessero prosperato sotto la sua potente mole. Il suo crollo segnò la fine di un’epoca e fu per molti l’inizio della fine.
Una cosa è certa: la maggior parte degli edifici dell’immaginaria città di Germania non venne nemmeno costruita. I resti della Torre, ridotti a massi lavorati rimasero a lungo ad Alzo, accatastati come un monumento alla follia umana, finché ad uno ad uno non vennero venduti tutti.
Impiegato per i cordoli delle strade e i marciapiedi nelle città ricostruite, il granito della città sognata da Hitler finì con l’essere calpestato da milioni di anonimi piedi in tutta Europa.
Forse quella fu la vendetta della Torre…

I racconti del vecchio scalpellino. La Torre, parte prima.

I racconti del vecchio scalpellino. La Torre, parte seconda.

Il granito di Hitler.


I racconti del vecchio scalpellino. La Torre, parte seconda.




Abbattere la Torre?
Il vecchio scalpellino, che a quei tempi era ancora un giovane dalle braccia d’acciaio e il passo veloce, non poteva credere alle sue orecchie.
Non si poteva fare una cosa simile!
I suoi compagni, però erano gente rassegnata. Lavoravano da stella a stella, dall’alba al tramonto, per una paga misera. D’inverno le cave chiudevano per il freddo e loro dovevano emigrare in Svizzera a lavorare come muratori. Potevano essere licenziati in tronco per la minima mancanza e avevano famiglie numerose da mantenere. Nessuno di loro poteva permettersi di andare contro il padrone, nemmeno per difendere la Torre.
Alla fine anche lo scalpellino dovette arrendersi. Chi era per opporsi al padrone? Chi era per opporsi a Loro, che si apprestavano a schiacciare l’Europa sotto gli stivali lucidi.
Con le lacrime agli occhi vide i minatori arrampicarsi sulla Torre. Bestemmiatori nati non avevano paura o rispetto di nulla. Nessuno di loro oltretutto aveva mai lavorato ai piedi della Torre. Andavano di cava in cava, dove li chiamava il migliore offerente. Mercenari della polvere nera li si sarebbe detti, avevano cuori duri come le pietra che foravano.
Fu suonato il corno. In tutto il Cusio le finestre vennero spalancate, per evitare che lo spostamento d’aria potesse romperle.
Lo scalpellino si tappò le orecchie per non sentire, ma udì comunque il botto. Una nuvola di polvere invase l’aria, avvolgendo la Torre. Quando si diradò la videro. La Torre era sempre lì. Non si era mossa nemmeno di un centimetro.
Rimasero stupefatti ad osservarla e molti in cuor loro tirarono un sospiro di sollievo. Ciò che stavano facendo era male e avrebbe potuto portare sfortuna a tutti. Sollevati si misero a mangiare, perché nel frattempo era giunto mezzogiorno e lo stomaco reclamava la sua parte.
Qualcuno, più allegro del solito, cominciò ad intonare una canzone che molte bocche presero ad accompagnare. La musica e il vino erano ottime medicine contro la tristezza e la fatica.
Improvvisamente si udì un tremore. Alzarono gli occhi al cielo e videro il terrore precipitare su di loro. La Torre stava collassando. La mina l’aveva indebolita e ora, dopo una strenua resistenza, cedeva, franando in tutta la sua altezza.
«Via tutti!» urlò uno che aveva combattuto nella Grande Guerra. «Ciascuno per sé e Dio per tutti!»
Difficilmente qualcuno lo udì. Abbandonato tutto si stavano dando alla fuga, affidandosi alla velocità delle gambe, perché non c’era riparo contro quella enormità che si abbatteva su di loro, in cerca di una vittima sacrificale o forse mossa solo dal caso e dalla gravità.
Se su questa terra esistesse una giustizia nelle disgrazie, la vittima di quella rovina sarebbe stato chi aveva voluto l’abbattimento della Torre. Non è così, normalmente e non fu così neanche quella volta, probabilmente. Non fu il più colpevole a trovarsi sulla strada dell’immenso masso che scendeva rotolando e rimbalzando, con salti di decine di metri. Fu il più lento, o solo il più sfortunato, perché sarebbe bastato poco, naturalmente, per salvarsi come gli altri. Invece il masso lo prese in pieno e la sua sola fortuna fu quella di morire sul colpo.
Passato lo spavento gli scalpellini riemersero dai rifugi che si erano trovati e si misero a contemplare la desolazione di quella frana. Anche il padrone si recò prontamente sul luogo della sciagura e iniziò immediatamente a stimare la quantità di granito che poteva essere lavorata. Ora avrebbe potuto inviare in Germania quanto Loro avevano richiesto.
Allo scalpellino non rimase che assoggettare il suo braccio al lavoro che gli veniva assegnato, ma prima di iniziare a lavorare un blocco lo accarezzava gentilmente, quasi a volersi scusare per ciò che stava facendo.
Al termine della sua vita, quando ormai tutti i suoi compagni, il padrone e finanche i committenti germanici erano morti da tempo, il suo rimpianto era che della Torre, con la sua morte, non sarebbe rimasta né immagine né memoria.
Questo racconto è un modesto tributo alla Torre e al piccolo grande Uomo che ne tramandava il ricordo.

I racconti del vecchio scalpellino. La Torre, parte prima.

I racconti del vecchio scalpellino. La Torre, parte seconda.

Il granito di Hitler.




I racconti del vecchio scalpellino. La Torre, parte prima.


L’ultimo scalpellino se la ricordava ancora, pochi anni prima di morire.
Raccontava dei suoi viaggi, che l’avevano portato a girare il mondo lavorando il granito con i suoi scalpelli. Da Alzo era partito, assieme a molti emigranti, per innalzare la diga di Assuan, in Egitto. Non quella costruita dai sovietici, dagli anni cinquanta ma la vecchia, quella costruita dagli inglesi nel novecentodue, che dovette essere innalzata due volte: la prima nel 1907-12, la seconda nel 1929-33. Il vecchio scalpellino aveva partecipato a questi ultimi lavori e ne aveva portato ricordi e fotografie.
Lavoro duro, faticoso e difficile, quello dello scalpellino in cui era facile rimanere vittima di incidenti, oppure prendersi la silicosi per la polvere che giorno dopo giorno si depositava nei polmoni. Eppure era sopravvissuto a tutto e quasi centenario, eppure lucidissimo, leggeva ancora il giornale senza occhiali. Delle tante cose che aveva visto nel suo lavoro una in particolare emozionava ancora e gli faceva brillare gli occhi su quella simpatica faccia da saggio cinese.
«La torre!» esclamava. «Dovevate vedere la torre! Era bellissima. Si ergeva altissima in mezzo alle cave e noi lì sotto sembravamo formiche ai suoi piedi. Era uno spettacolo incredibile!»
I cavatori di Alzo l’avevano inconsciamente creata mina dopo mina. Anche quel lavoro aveva qualcosa di incredibile. Uomini che scalavano la roccia, aggrappandosi a corde o scalette portando sulle spalle le punte. Poi cominciavano a forare la roccia, centimetro dopo centimetro, con punte che potevano essere gradualmente allungate giuntandole con altre sbarre d’acciaio. Si procedeva lentamente e ogni volta la punta doveva essere girata di un quarto di giro. Dapprima a mano, poi, quando il peso dell’acciaio diventava immenso, utilizzando delle cinghie.
Poi, quando i fori erano sufficientemente lunghi, il minatore risaliva la parete portando in spalla un sacchetto di polvere nera di dieci chili. Doveva infilarla nel foro, stando ben attento a non provocare la minima scintilla, se non voleva essere proiettato nel vuoto e ricadere sulle rocce cento metri più sotto. Occorreva riempire numerosi fori profondi anche dieci metri, perciò i viaggi su e giù per le scale nessuno stava nemmeno a contarli.
Quando i fori erano pronti si sistemavano le micce, che non dovevano essere né troppo lunghe né troppo corte. Chi le accendeva doveva avere il tempo di scendere per mettersi al riparo, ma si doveva evitare che la miccia si spegnesse. Quello rappresentava l’incubo di ogni minatore. Dover salire là sopra, per togliere le micce, senza sapere se il fuoco si era spento o se attendeva solo il momento per lui propizio – un colpo di vento, un raggio di sole – per riprendere la sua corsa… C’era il rischio di trovarsi là sopra proprio mentre l’esplosione aveva successo, maledetta sfortuna.
Forse per questo la maggior parte dei minatori spendeva il proprio salario all’osteria o al bordello. Quale donna poteva reggere l’idea di non sapere mai se alla sera sarebbe venuto a casa il marito oppure qualcun altro, per consigliarle di resistere e di non andare a vedere cosa ne restava?
Indifferente alle sorti degli uomini che si affaticavano ai suoi piedi, la “Torre” se ne stava lì. Era come un monolite di pietra, un monumento eretto in memoria di quanti erano morti, si erano feriti o ammalati. Un monumento sacro, insomma, al punto che qualcuno cominciava a pensare che la Torre non fosse solo una formazione di granito creata dal caso. L’avevano liberata dalla roccia, ma lei era sempre stata lì, in attesa di quel giorno.
La sua bellezza era però valutata in modo diverso da altri occhi. C’erano centinaia, forse migliaia di metri cubi di ottimo granito bianco di Alzo nella Torre e il padrone della cava sapeva quanto poteva valere quella pietra per Loro. Di fronte a quel guadagno cos’era la bellezza? I marchi del Terzo Reich non erano più belli? Cos’era la sacralità di quel monumento? Era pronto ad abbattere anche il Santuario della Madonna del Sasso, in cima alla rupe, pur di cavare qualche tonnellata in più! Per riuscirci aveva già fatto di tutto: mentire, promettendo di ricostruirlo a sue spese più bello in un altro luogo; far mandare al confino quel fastidioso avvocato sovversivo che osava tentare di fermare il progresso. Cos’era la Torre di fronte al Santuario? Nulla, al massimo un monumento alla superstizione del popolo bue.
Perciò diede l’ordine: si abbatta la Torre!

I racconti del vecchio scalpellino. La Torre, parte prima.

I racconti del vecchio scalpellino. La Torre, parte seconda.

Il granito di Hitler.

giovedì 24 aprile 2008

I racconti del barcaiolo. L’isola nella nebbia


Lo incontro in uno dei bar che si affacciano sulla piazza. Ha l’aria furba del pirata abituato all’abbordaggio. Il suo però è di un tipo particolare poiché, come un vivissimo Caronte, il suo compito è sospingere i malcapitati turisti nella sua barca, per portarli verso l’isola. Nessun pericolo ad affidarsi a lui, per carità, salvo quello che corre il portafogli, viste le tariffe.
È il Filosofo a presentarmelo. Il Filosofo una sorta di collega di Caronte, perché lavora all’ufficio turistico di Orta che è un porto di mare, dove incontri persone provenienti da tutte le parti del mondo. Anche il Filosofo ne avrebbe da raccontare di storie, ma ci saranno altre occasioni per farlo.
Caronte mi guarda, con l’occhio indagatore di chi sa indovinare al volo chi ha di fronte. Ed estrae dalla sua inesauribile borsa di storie quella che va bene per me.
«Era il gennaio del 2005» comincia. «Sono sicuro, perché la settimana dopo c’era la festa di San Giulio. C’era una nebbia spaventosa, quella mattina, da non vedere l’isola. Avevamo capito che non ci sarebbe stato molto lavoro. Così ce ne stavamo tutti al bar, quando entrò un tizio, magro e pallido come la nebbia.
“Scusate, devo andare all’isola.”
I modi erano gentili, ma con il tono era così deciso da non ammettere risposte negativi. Gli dissi che avrei finito di bere il mio amaro e poi l’avrei portato io. Mi rispose che avrebbe aspettato fuori. Lo ritrovai sul molo, infatti. Si guardava continuamente attorno, come se aspettasse l’arrivo di qualcuno. Quando accesi il motore e mi staccai dalla riva, tirò un sospiro di sollievo.
“C’è una gran nebbia, oggi” dissi, cercando di avviare una conversazione con quell’enigmatico passeggero. «Si fermerà molto? Glielo chiedo perché normalmente basta che le persone si affaccino al molo e noi veniamo a prenderle, ma oggi…”
“Penso che mi fermerò parecchio” rispose.
Guardai dinnanzi a me, cercando d’individuare la sagoma dell’isola, ma la nebbia sembrava infittirsi.
“Non vi ricordate di me, vero?” mi chiese improvvisamente.
“Cosa volete” sorrisi indulgente “trasportiamo migliaia di persone all’anno...”
“Esattamente un anno fa mi avete portato indietro” insisté. “C’era anche una ragazza.”
“Mi spiace, ma trasporto centinaia di coppie di fidanzati, sposi, eccetera.”
“Non era certo la mia fidanzata, quella!”
A quel punto la mia curiosità prevalse. In ogni caso è meglio assecondarli, i matti.
“Sentite, perché non vi spiegate meglio? Così magari mi viene in mente…”
“Si certo” annuì. “A voi posso dirlo, dopotutto.”
Si avvicinò, per poter parlare senza dover sovrastare il rumore del motore urlando.
“Tre giorni a pane ed acqua” sorrise. “E per tre giorni trovai tutte le porte delle chiese chiuse. Finché il triduo di penitenza terminò e venni all’isola per confessarmi. Feci una confessione completa, da quando ricordavo i primi peccati. Mi aprii, fui assolto e fui sollevato. Quando ebbi finito andai nella Basilica a pregare sulla tomba del Santo Giulio, il grande esorcista. Felice lasciai la chiesa e mi diressi al molo. Fu lì che vidi la ragazza. Non c’era nessun altro oltre a noi. Io e lei, su un isola apparentemente deserta. Era carina, eravamo soli, sarebbe stata l’occasione ideale per attaccare bottone. Ma mi ero appena confessato ed ero già impegnato… Notai il suo sguardo un po’ deluso quando, dopo un po’ la barca salpò da Orta e venne a prenderci. C’eravate voi alla guida, me lo ricordo bene.”
“Può essere…” risposi più per farlo contento che per convinzione.
“Voi, comprensibilmente attratto, cominciaste a parlare con lei. Io ero seduto dentro e sentivo solo parte del vostro dialogo. Ad un certo punto però udii distintamente le vostre parole.
‘Venite spesso sull’isola?’
‘Solo se costretta’ scosse la testa lei. ‘L’acqua mi fa paura.’
A quel punto mi guardò e io riconobbi quello sguardo. In quel momento sentii la paura corrermi ad onde lungo la schiena. Vedete, c’’è un’antica leggenda che spiega come i demoni temano l’acqua e non possano attraversarla. Un tempo l’isola era infestata da loro, ma il Santo li cacciò, bandendoli per sempre da qui. Quel giorno un altro demone era stato cacciato e se ne andava dall’isola. Per questo ho deciso che tutti gli anni sarei tornato a confessarmi qui.”
Improvvisamente vidi la terra di fronte a me, ma con un brivido mi accorsi che non si trattava dell’isola, ma di Orta. Non so come, ma nella nebbia mi ero perso ed ero tornato indietro. Prima di poter dire qualsiasi cosa, vidi la ragazza in attesa sul molo.
Allora la riconobbi. Sorrise, ma il suo era un sorriso crudele.
Preso dal panico virai immediatamente, puntando al largo, mentre l’uomo accanto a me cominciava a pregare e invocare il Santo.
Vi giuro che non sto scherzando: la nebbia si alzò e vidi l’isola, mentre il sole iniziava a scintillare sull’acqua. Il mio passeggero si accasciò su un sedile, tenendosi la testa tra le mani e ringraziando San Giulio. Quando mi voltai verso il porto non c’era nessuno sul molo.»

Metodi sicuri per far tornare il sole

La Lina era davvero custode di un'antica sapienza.

Sapeva invocare la pioggia quando c'era la siccità, ma sapeva anche cosa fare quando pioveva troppo.

In quel caso le donne si recavano ad un grande masso vicino alla strada per Miasino. La Lina forse non sapeva che quel masso era stato deposto lì dal ghiacciaio migliaia di anni prima.
O forse lo sapeva.
Ciò che sapeva per certo, però, era che per far smettere di piovere bisognava implorare l'immagine della Madonna di Crana, conservata in una cappella lì vicino.

Metodi sicuri per invocare la pioggia - 2




Le barche solcavano l'acqua del lago formando una lunga teoria. I pescatori erano ai remi, ma quel giorno pescavano uomini, non pesci. C’era da trasportare una piccola folla radunata nel porto di Buccione, dopo essere giunta a Gozzano in treno.
I pellegrini, peraltro, si radunavano a Buccione non solo prima che la ferrovia raggiungesse il Cusio, ma addirittura prima che quell’inglese inventasse il cavallo a vapore.
Da tempo immemorabile venivano, fin dai più sperduti casolari del novarese in pellegrinaggio alla Fonde di San Giulio alle cui acque persino San Carlo Borromeo aveva bevuto.
I pescatori remavano e intanto chiacchieravano con i pellegrini, scambiando notizie e raccontando aneddoti. I più giovani cercavano di far colpo sulle ragazze esibendo le braccia dure come il legno con cui sfioravano appena il pelo dell’acqua, facendo avanzare le barche.
I più anziani si divertivano a raccontare le loro imprese di pesca e i pericoli scampati in modo miracoloso.
«Tutto il giorno ho lottato per prenderlo. Un luccio così lungo e pesante che a fatica sono riuscito ad issarlo sulla barca».
«Quando il vento viene dal Mesma lo chiamiamo Traversone. Si alza all’improvviso, nelle calde giornate d’estate, come questa. In pochi minuti ci sono onde alte come cavalli!. Ma questo è nulla. Quando il Traversone si scontra con il vento della Valsesia allora il lago sembra impazzito. Le onde si scontrano con le onde e l’acqua pare ribollire, come se un Drago rotolasse sul fondo del lago, agitando la coda. Una barca può affondare in pochi minuti e l’unica cosa da fare e raggiungere la terra il più in fretta possibile pregando San Giulio di avere il tempo per farlo.»
Racconti come quelli aumentavano la gratitudine degli spaventati pellegrini, ben pochi dei quali sapevano nuotare, che spesso aggiungevano una moneta al compenso pattuito.
Perché andare alla Fonte non era solo l’occasione per una gita sul lago. Era una necessità nei tempi di siccità o quando le locuste invadevano i campi. Erano note infatti le proprietà della sorgente, miracolosamente fatta sgorgare dal santo assetato nel suo cammino verso la punta Casario, da cui sarebbe partito per il suo viaggio miracoloso.
«Stese il mantello sull’acqua e vi navigò sicuro come su una barca, utilizzando il remo come mantello.»
Perciò, pieni di fede i pellegrini sbarcarono nella piccola spiaggia per prendere quell’acqua freschissima e perenne. Sparsa sui campi, avrebbe fatto piovere finalmente, dopo tanta siccità, e sarebbe stata rimedio infallibile per cacciare i parassiti che ormai infestavano i raccolti.

Metodi sicuri per invocare la pioggia - 1

La siccità si prolungava da tempo e i campi cominciavano ad ingiallire.
«Ancora qualche giorno così e il raccolto andrà in malora.»
«E noi faremo la fame»
Gli uomini scuotevano la testa e guardavano il cappello di nuvole che volteggiava sulla vetta del Mottarone.
«Quando il Mottarone ha il cappello» sentenziò un vecchio «o che piove o che fa bello.»
Nessuno contraddisse l’antica sapienza dell’uomo.
«Dobbiamo andare dalla Lina» conclusero «e chiederle di fare qualcosa.»
La Lina era la maestra del paese, ma la sapienza a cui doveva fare ricorso in quella circostanza aveva ben poco a che fare con la grammatica e l’aritmetica.
Riunì le donne del paese e le guidò in una processione senza insegne religiose, mormorando una preghiera che ai più sembrava un'Ave Maria e a pochi una litania le cui parole, tramandate di donna in donna, erano difficilmente comprensibili.
Giunte al Ponte del Bosco, presso la confluenza del torrente Ondella nell’Agogna, attinse l’acqua con una brocca e diede a tutte da bere, intimando di non berne, né sputarne, nemmeno una goccia. Poi si riempì a sua volta la bocca e a cenni guidò le donne in processione verso l’immagine della Madonna, passando sul ponte.
Giunte davanti alla cappella, ad una ad una, cominciando dalla Lina, cominciarono a versare l’acqua, implorando la pioggia.
Infine, fiduciose, si diressero verso il paese, scrutando il cielo per scorgere i nuvolosi carichi di quella pioggia così tanto attesa.

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"Di un fatto del genere fui testimone oculare io stesso".

Ludovico Maria Sinistrari di Ameno.