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mercoledì 23 febbraio 2022

L’anno più orribile della storia

Ogni tanto gli storici si divertono a stilare la classifica del peggior anno della storia dell’umanità. Probabilmente rientra nello sforzo consolatorio di trovare un periodo peggiore di quello che si sta vivendo. Anche perché, effettivamente, se andiamo di confronti molti motivi di lamentazione attuale vengono meno.

Uno degli anni che se non è al primo posto sicuramente sta sul podio degli anni orribili è considerato il 536. In quell’anno «il Sole sorgeva ma la sua luce non illuminava, come la Luna, per tutto l’anno. Sembrava come un’eclissi di Sole», racconta lo storico bizantino Procopio. 

Quella nebbia di origine misteriosa, che alcuni scienziati attribuiscono all’eruzione di un vulcano, durò per 18 mesi immergendo Europa e Asia nell’oscurità e dando vita alla decade più fredda degli ultimi 2300 anni. Le conseguenze furono catastrofiche. I raccolti furono rovinati e la carestia innescò una crisi sociale e demografica dalle dimensioni apocalittiche. 

L’inverno era arrivato potremmo dire parafrasando il celebre motto di Casa Stark ne Il Trono di Spade.

Esagerazioni di cronisti medievali isterici? Che un’eruzione vulcanica possa modificare il clima e innescare carestie a livello globale è cosa nota. Basti vedere cosa successe poco più di due secoli fa. A proposito, avete già letto Una lunga gelida estate? Scoprirete come un anno senza estate cambiò anche la storia della letteratura 

Tornando al secolo sesto, dopo la carestia arrivò la peste bubbonica che si diffuse a partire dall’anno 541 sterminando un terzo della popolazione dell’Impero romano d’Oriente.

E come se non bastasse ai primi due Cavalieri dell’Apocalisse, si aggiunse Guerra.

L’imperatore Giustiniano si era messo in testa di riconquistare la parte occidentale dell’Impero. L’Africa, ma anche e soprattutto l’Italia, dove stava quella Roma dai cui colli tutto era cominciato.

Con una specie di guerra lampo (533-534)  il generale Belisario riuscì a riconquistare Cartagine sconfiggendo i Vandali. L’anno successivo sbarcò in Sicilia, convinto di togliere la penisola agli Ostrogoti in breve tempo.

Ma anche allora se iniziare una guerra era facile, portarla a termine era un altro paio di maniche. I Goti si dimostrarono ben più duri di quello che pensavano i Romani e opposero una resistenza feroce, utilizzando ogni tattica, dalla guerriglia, al terrore, giungendo infine ad armare le masse di schiavi. 

Aiutati, va detto, anche dalla crisi demografica ed economica dell’impero causata dai disastri ambientali sopra descritti, nonché dagli intrighi, le invidie e le contrapposizioni all'interno dell’alto comando romano. Il risultato fu una guerra che si trascinò per vent’anni, devastando e spopolando l’Italia.

Negli anni peggiori si registrarono persino casi di cannibalismo. «Due donne in una tenuta presso la città di Rimini” racconta Procopio “rimaste sole nella villa mangiarono diciassette uomini, uccidendoli di notte mano mano che capitavano in casa; le quali furono poi ammazzate dal decimo ottavo». Episodio su cui forse dovrebbero riflettere quegli storici maschi che ritengono le donne mancanti “di sicurezza e aggressività

Quando infine Bisanzio prevalse si trovò davanti un paese distrutto. E poiché al male non c’è mai fine l’imperatore di Biasanzio chiamò un altro Cavaliere, non citato nell’Apocalisse ma ugualmente temibile: le Tasse. L’esoso sistema fiscale imposto, necessario per ripagare gli elevatissimi costi della guerra, diede il colpo finale. 

Quando nel 568, quindici anni dopo la fine della guerra Greco Gotica, un popolo che viveva in Pannonia decise di abbandonare quella terra sempre più fredda e inospitale per il peggioramento delle condizioni climatiche, invadendo l’Italia, trovò ben pochi disposti o capaci di lottare per difenderla. L’età di Roma era definitivamente tramontata e iniziava il vero medioevo.

Di tutti questi eventi abbiamo una testimonianza che viene dall’Isola di San Giulio. Qui fu scoperta infatti una lapide relativa alla sepoltura del vescovo di Novara Filakrio, morto attorno al 553/554. Che un vescovo di Novara con un nome greco si trovasse sull’isola e non nella città della diocesi negli ultimi anni della guerra Greco Gotica ha fatto pensare che fosse “sfollato” in un posto naturalmente sicuro e protetto com’era l’isola, difesa dalle profonde e pescosissime acque del lago d’Orta. Del resto Novara in quegli anni doveva essere probabilmente in rovina, considerate le violenze e le stragi causate dalla guerra. 

giovedì 10 febbraio 2022

Antichità di Carcegna

 



A Miasino, nella frazione di Carcegna, a partire dalla fine dell’Ottocento, furono scoperte numerose tombe facenti parte di una piccola necropoli. L’arco cronologico complessivo è piuttosto esteso e va dal II secolo a.C. al V d.C. 

Attraverso lo studio dei corredi tombali è possibile osservare la trasformazione sugli usi e costumi locali dal periodo celtico a quello della romanizzazione, quando agli oggetti della tradizione locale si affiancano prima e sostituiscono dopo quelli di provenienza romana. 

La completa romanizzazione degli indigeni si osserva a partire dall’epoca imperiale sino ad arrivare ad alcune tombe prive di corredo che testimoniano verosimilmente l’avvenuta cristianizzazione.

Una caratteristica della necropoli è la presenza di numerosi gruzzoli di monete. Non solo “l’obolo di Caronte”, la moneta deposta nella bocca del defunto per pagare il viaggio nel mondo dei morti, ma veri tesoretti monetali. Si tratta di un uso che testimonia forse la circolazione di denaro in una comunità dove l’economia locale era basata principalmente sul baratto e quindi si potevano consegnare all’eternità piccoli gruzzoli di monete.

Una situazione che si ritrova in altre zone, probabilmente da collegare alla presenza di una via di transito di cui l'antica Carcegna poteva rappresentare uno dei punti di passaggio.

Sul monte sopra Carcegna si trova un grande masso erratico di colore scuro, dove si osservano alcune coppelle. Si tratta di rituali che affondano le radici nelle tradizioni pagane, ma la cui datazione precisa è problematica considerato che la pietra è rimasta esposta, e verosimilmente anche frequentata, fino a epoche recenti.


giovedì 3 febbraio 2022

Omegna tra storia e leggenda

 



I più antichi ritrovamenti del territorio omegnese vengono da Cireggio e risalgono all’età preistorica. Nonostante alcuni altri ritrovamenti di epoca romana, è solo con il Medioevo che Omegna inizia ad emergere come centro abitato, con la presenza di un munito castello sull’altipiano di Cireggio e le mura cittadine difese da cinque porte, di cui resta ben visibile la  “Porta romana”, che in realtà risale a molti secoli dopo la fine dell'impero e coi Romani non c’entra nulla.

Dopo la vittoria del Vescovo di Novara sul Comune di Novara nel 1219 il lago d’Orta andò a costituire la Riviera di San Giulio e i Novaresi furono espulsi dal lago. Sconfitti sul piano militare decisero di giocare la carta della diplomazia e dell’intrigo per assicurarsi almeno un porto sul lago. Senza quello le merci che intendevano far transitare verso le Alpi sarebbero state gravate di dazi eccessivamente onerosi.

Poiché Omegna apparteneva ai signori di Crusinallo fu eletto podestà un certo Desiderato che era loro parente. Costui, usando abilmente lusinghe e promesse, riuscì a convincerli a vendere al Comune di Novara il borgo di Omegna e le terre circostanti per 1300 lire imperiali. Inoltre i signori di Crusinallo sarebbero diventati cittadini e soldati novaresi. In cambio vennero nominati governatori di quanto avevano ceduto. Avevano in sostanza perso la proprietà, ma mantenuto l’incarico. E in più avevano rimpinguato le casse della famiglia con un bel gruzzolo. In cambio di questo soddisfacente affare, ratificato nella convenzione dell'11 agosto 1221, il castello di Omegna ricevette il nome del podestà, diventando il Castello Desiderato.

Così almeno si narra, perché attorno alla storia di Omegna girano anche tante leggende più o meno attendibili.

Ci sono infatti leggende inventate dal popolo e altre messe in giro dagli storici, o sedicenti tali. A cui spesso vengono a dare manforte gli scrittori, che per professione devono inventare. Così attorno a Omegna sono sorte alcune storie abbastanza divertenti.

A cominciare dal nome, che alcuni vorrebbero far derivare da “Vae Moenia!” grido lanciato da Giulio Cesare dopo aver vanamente tentato di conquistare la città. Ora, a parte che l’episodio non è citato in nessuna fonte, sarebbe bene ricordare che il famoso conquistatore dell’intera Gallia, il trionfatore degli Elvezi e dei Germani, che aveva portato le insegne di Roma oltre la Manica e il Reno, espugnando fortezze, campi trincerati e città difese da eserciti ben superiori alle sue forze, aveva la carica di Proconsole della Gallia Cisalpina. Di cui il territorio di Omegna, ammesso che ai suoi tempi esistesse come villaggio, faceva parte integrante. E non si comprende perché avrebbe dovuto opporsi al proprio governatore.

Secondo lo scrittore Gianni Rodari nelle acque della Nigoglia fu trovata un'iscrizione in dialetto locale che recitava: «La Nigoeuja la va in su; e la legg la fèm nu!» («La Nigoglia scorre in su; e la legge la facciamo noi!»). Un modo per sottolineare l’indipendenza degli Omegnesi, che del resto si ritrova in un’altra leggenda.

Si racconta infatti che un giorno San Giulio, dopo aver cacciato i draghi dall’isola, cercò di sbarcare anche a Omegna. Ma gli abitanti non lo lasciarono avvicinare e presero a bersagliarlo con le rape. Per questo motivo nel territorio di Omegna, maledetto dal santo, le rape non crescono.


lunedì 31 gennaio 2022

San Giulio, i draghi e un dolce pensiero

 



Scavi condotti alla fine del secolo scorso sull’isola di San Giulio, hanno portato alla luce frammenti ceramici di età preistorica, inquadrabili in un lungo arco di tempo, dal neolitico all’età del ferro, vale a dire dal IV al I millennio a.C. 

A questa frequentazione sembra seguire una fase di abbandono, databile all’età romana che si interrompe improvvisamente con la costruzione di un edificio di culto paleocristiano nel V secolo d.C.

Le testimonianze dell’archeologia supportano una vicenda storica narrata da un testo di età longobarda, che contiene la Vita di san Giulio. In essa si racconta di come, alla fine del IV secolo, il prete Giulio nativo dell’isola greca di Egina giunse sul lago col fratello Giuliano. Dopo aver costruito insieme una chiesa a Gozzano (l’attuale San Lorenzo), Giulio proseguì il viaggio da solo, desiderando fondare la sua centesima chiesa sull’isola in mezzo al lago. 

Nonostante le lettere rilasciategli dall'imperatore Teodosio, che regnò dal 379 al 395, in cui si ordinava a ogni ufficiale dell’impero di dargli assistenza nel compito di abbattere gli altari pagani e sostituirli con chiese cristiane, tutti i barcaioli si rifiutarono di accompagnarlo sull’isola. Per timore, dicevano, dei velenosissimi draghi che la infestavano e che rendevano pericoloso avvicinarsi a meno di un tiro di freccia. Giulio non si diede per vinto e percorsa la costa occidentale sino alla punta Casario, prese il proprio mantello di cuoio impermeabile e lo trasformò in una imbarcazione, con cui raggiunse l’isola. 

Secondo la leggenda ordinò ai draghi di lasciare quel luogo, confinandoli su una scoscesa rupe piena di anfratti che si trova sulla costa occidentale, il Monte Camosino, e si diede a costruire la sua ultima chiesa.

Attorno a questa, che dopo pochi anni ospitò la sua sepoltura, si riorganizzò la vita del territorio, facendo dell’Isola il centro di evangelizzazione del lago, che da allora e per oltre mille anni prese il nome di Lago di San Giulio.

Oggi, 31 gennaio, si celebra la festa di San Giulio e da ogni paese i pellegrini si recano all’isola per pregare sulla tomba del santo. Da alcuni decenni le monache benedettine dell’Isola hanno aggiunto una nota dolce alla festa, inventando la ricetta dei Panini di San Giulio, che si preparano solo in questa occasione. Era una loro idea, nata in una fredda sera di gennaio, mettendo insieme quei pochi ingredienti che avevano a disposizione per offrire ai pellegrini una dolce accoglienza. 

Solo in seguito scoprirono che anticamente esisteva l’usanza di offrire ai pellegrini dei “paniculi” benedetti. Senza saperlo, e forse ispirate dall’antica saggezza di un luogo sacro da tempi antichi, avevano ridato vita a un’antica tradizione.


domenica 27 gennaio 2019

La ragazza del sogno - Parte 8



La spada di San Martino

La chiesa sovrasta la fertile piana, quasi volesse benedirla col suo benefico influsso. San Martino è un santo legato al mondo agricolo e pastorale. L'undici novembre, giorno della sua festa, era un giorno importante per i braccianti e i mezzadri che, approfittando dell'estate di San Martino, "facevano San Martino". Carri carichi delle poche masserizie di proprietà portavano tutta la famiglia in una nuova cascina se il precedente proprietario non aveva rinnovato il contratto e il capofamiglia era riuscito a trovare un nuovo ingaggio. 

San Martino è patrono di una pluralità di soggetti tra i quali troviamo i militari, ma anche i forestieri e i mendicanti. Il motivo è legato alla famosa vicenda che lo vide protagonista. In una fredda notte dell'inverno del 335 dopo Cristo s'imbatté in un poveraccio seminudo che stava morendo di freddo. Martino indossava invece la clamide, il caldo mantello militare di lana, che era parte della sua uniforme militare. Non prestava servizio tra le truppe combattenti, ma nella guardia imperiale a cavallo che aveva il compito di sorvegliare le guarnigioni e svolgere funzioni di controllo e scorta di personaggi importanti.

Quel pattugliamento notturno l'aveva portato invece a incontrare quel mendicante che chiedeva aiuto. Avrebbe potuto tirare dritto, poiché non era compito suo aiutarlo. Altri l'avrebbero persino minacciato perché stava intralciando un pubblico ufficiale. Martino prese il mantello e lo divise a metà. Aveva fatto la sua scelta, tagliente come la lama di una spada.

La notte seguente sognò Gesù che raccontava ai suoi angeli di come quel soldato l'avesse rivestito. Al risveglio trovò il mantello miracolosamente integro e di lì a poco si fece battezzare. Restò nei corpi scelti per altri vent'anni, le persecuzioni contro i cristiani erano terminate da tempo, continuando a operare per il bene, fino a quando si congedò iniziando un'intensa vita religiosa che lo portò a diventare vescovo di Tours.

Guardo la spada di Martino, raffigurata nei magnifici affreschi della chiesa del perduto paese di Ingravo e penso come in certi momenti non puoi più permetterti di stare nel mezzo e la scelta debba essere netta, perché o stai di qua o stai dall'altra parte.

Il ricordo vola a un fatto che mi è stato raccontato più volte e che accadde nel lungo inverno dell'anima che andò dall'otto settembre del 1943 al 25 aprile del 1945. Due ragazzi, un fratello e una sorella, nascosti in una villa a San Maurizio d'Opaglio. Ricercati, braccati, con l'unica colpa di essere ebrei. Nascosti da persone di buon cuore, nel modo apparentemente più semplice. Se vuoi occultare una mela, mettila tra le mele. Ma due ragazzi che non vanno mai alla messa, in un piccolo paese cattolico, possono indurre qualcuno a sospettare. Le spie possono essere ovunque, non ti puoi fidare di nessuno. D'altro canto sono le autorità a sollecitare le denunce ed esistono specifiche leggi razziste. Solo che ora accanto ai fascisti ci sono anche i nazisti e si sa che cercano i giudei per portarli via. Li prendono e non si sa dove li portino, ma nessuno torna indietro. Mai.

Ecco allora i due ragazzi messi in fila con gli altri per ricevere l'Eucarestia. Certamente il prete sa chi sono. Molti hanno capito. Nessuno li denuncia. La scelta è stata fatta. Arriva la fine della guerra e possono tornare a casa e ricominciare a vivere. 


Questa è l'ottava parte de "La ragazza del sogno".

Settima parte

Continua



martedì 5 dicembre 2017

Albero axis mundi



C'è qualcosa di arcaico e profondo nel fascino che l'umanità prova per gli alberi. Ricordo forse ancestrale di un tempo in cui i nostri progenitori vi trovavano cibo e rifugio contro i pericoli di una vita nomade. Con rami tesi come braccia ad accogliere, sfamare, proteggere; fusti che sfidano le tempeste per secoli, a indicare la strada a molte generazioni di umani; e radici nascoste ripiene di rimedi medicamentosi noti attraverso una sapienza misurabile in decine di migliaia di anni.
Non stupisce quindi trovare gli alberi associati al concetto di divino fin dalle epoche più antiche. Senza alcuna pretesa di voler esaurire l'argomento sabato proveremo a fare un viaggio attraverso le civiltà europee cogliendo, è il caso di dirlo, fior da fiore.


A
Albero 
axis mundi

Simbologia, antropologia 
e tradizione intorno agli alberi
Miasino, Orangerie di Villa Nigra
 9/12/17
h.15,30

sabato 15 luglio 2017

Antichi dei



Ci fu un tempo, non così lontano, in cui attorno al lago non avreste potuto trovare neppure una chiesa. In quel tempo le persone pie e religiose offrivano sacrifici di sangue, dedicavano altari e invocavano il nome di divinità la cui antichità si contava in migliaia di anni.
Erano i tempi dei pagani, ufficialmente terminati nell'anno 380 dell'Era Volgare quando gli imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio emanarono una legge che esordiva in modo perentorio: "Vogliamo che tutti i popoli che ci degniamo di tenere sotto il nostro dominio seguano la religione che san Pietro apostolo ha insegnato ai Romani."
Da quel momento chi non si fosse adeguato sarebbe stato considerato uno "stolto eretico" e sarebbe stato condannato "dal castigo divino, poi dalla nostra autorità, che ci viene dal Giudice Celeste".

Che non fossero solo parole lo si vide pochi anni dopo, quando una serie di decreti attuativi, come li chiameremmo noi oggi, andò a ordinare la materia. Tra il 391 e il 392 vennero proibiti i culti pagani. Sotto pena di multe salatissime, che andavano dalle 15 alle 30 libbre (1 libbra=327,168 g) d'oro e a rischio pure di essere accusati di lesa maestà, reato che poteva comportare la pena capitale, fu proibito di sacrificare agli dei ed entrare nei templi pagani che di fatto furono chiusi. Infine furono vietati anche i culti privati e nascosti.

Questi decreti misero un'arma fortissima in mano a molti sedicenti cristiani (nel senso che lo erano nel nome ma assai poco nello spirito caritatevole verso il prossimo). Accesi di fanatismo vandalico essi non erano nemmeno immuni da interessi economici, dal momento che i templi traboccavano di oro e metalli preziosi, essendo autentiche cassaforti ricolme di doni accumulate in secoli e secoli di storia. Si comprende quindi come alcuni fanatici abbiano potuto guidare masse di diseredati all'assalto di edifici che avevano fatto la storia. 
Il caso più eclatante avvenne ad Alessandria dove vi furono scontri violentissimi, con morti e feriti, tra i cristiani guidati dal vescovo Teofilo e i pagani, al termine dei quali il Serapeo fu abbandonato alla distruzione e al saccheggio.

Pochi anni dopo i pagani che ancora erano maggioranza nell'impero tentarono un'ultima resistenza armata, affidata agli eserciti semibarbarici dell'Imperatore Eugenio e del suo generalissimo, il franco Arbogaste. Presso il fiume Frigido nel settembre del 394 essi furono però sconfitti dal cattolicissimo imperatore Teodosio e trovarono la morte. Ne abbiamo parlato in chiusura della lunga storia sulla Legione Tebea, che si svolse in questo contesto.

Sarebbe ingenuo tuttavia pensare che il paganesimo sia morto in quei giorni. I barbari che invasero l'impero pochi anni dopo erano in gran parte ancora pagani o al più ariani. E l'opera di conversione al cristianesimo durò secoli. Durante i quali la convivenza tra credenze cristiane e pagane fu molto più vasta e importante, specialmente nelle campagne, di quello che normalmente si crede.

E un ruolo chiave l'ebbero dei monaci cristiani che erano stati a scuola dai druidi irlandesi. Ma questa è un'altra storia...


Note.
I testi tra virgolette sono tratti dall'Editto di Tessalonica del 380.

Se volete saperne di più sui culti pagani diffusi nella nostra zona prima dell'arrivo del cristianesimo vi aspetto ad Ameno presso Palazzo Tornielli in Piazza Marconi 1, venerdì 28 luglio alle ore 18:30 per il primo incontro della seconda edizione di Culturachilometro0 organizzata dall'Associazione Cusius.

Questo il programma:

Andrea Del Duca
(archeologo, direttore Ecomuseo Cusius)
Culti precristiani nel Cusio e nel Novarese.Le testimonianze dell’archeologia

Fiorella Mattioli Carcano
(storico, presidente Associazione Cusius)
Persistenze dell’antico credere nell’immaginario e nella ritualità in area cusiana dal Medioevo ad oggi

La partecipazione all’incontro, della durata di circa un’ora, è gratuita.

A fine incontro ai partecipanti sarà dedicato un assaggio di prodotti a “chilometro0”







mercoledì 10 febbraio 2016

Lo strano caso del meteorite

Il Museo settala nel 1666


Un recente episodio di cronaca avvenuto in India ha fatto gridare alcuni giornalisti al “primo caso di uomo ucciso da meteorite nella storia”.

Invece, se andiamo indietro nel tempo, fino al 1654, e ci spostiamo a Milano ci imbattiamo in un fatto inquietante .

Il 4 settembre di quell’anno un frate francescano della chiesa di Santa Maria della Pace stava camminando per strada quando fu improvvisamente gettato a terra e ucciso da una forza invisibile.

Per risolvere quello straordinario mistero venne chiamato un uomo eccezionale, che godeva la fama di essere l’Archimede Milanese.

Manfredo Settala, figlio del protomedico Ludovico che compare nel Promessi Sposi ai tempi della peste, aveva creato in Milano un Museo dove erano raccolte curiosità e oggetti raccolti nei suoi viaggi per il mondo o scambiati con altri collezionisti. Lui stesso illustrava personalmente agli ospiti illustri, che non mancavano mai di visitare il suo Museo, le meraviglie che vi erano contenute.

Nel caso del povero frate egli prese molto seriamente la questione e dopo un attento esame del cadavere riuscì ad individuare ed estrarre da una gamba una “pietra del fulmine”, del diametro di circa sei centimetri, che tagliata emise un forte odore di zolfo.


Dopo la morte del Settala il meteorite finì all’Ambrosiana, da cui scomparve misteriosamente, probabilmente rubata e rivenduta a qualche collezionista. Ne resta un disegno, su uno dei tanti commissionati dal settala per descrivere la propria collezione, purtroppo in gran parte andata dispersa.

martedì 15 dicembre 2015

Pranzo speciale per bambine anemiche dell’Ottocento


A Milano nell'Ottocento si arrivava in barca

C’era una volta una bambina, nata esattamente 150 anni fa, che perso il padre ancora piccola per una sorte malaugurata, fu messa in un antico e famoso ricovero milanese per orfane. La Stelline, come erano chiamate le piccole, potevano mangiare tre volte al giorno, a colazione, pranzo e cena. Nel menu oltre al latte, alla frutta e alle minestre, non mancavano le “pietanze”. Scarseggiava però la carne, dal momento che il costo giornaliero era sui 95 centesimi.

Così quando il dottore disse che la piccola era anemica e avrebbe avuto bisogno di mangiare carne, il cuoco disse “ghe pensi mi!”. A beneficio dei lettori non lombardi, l’espressione oltre al suo significato letterale (“ci penso io”) è emblematica di quel modo di pensare milanese per cui un ostacolo non è una problema, ma un’occasione per mettere in mostra il proprio talento.

Così a Maria, così si chiamava, fu servita carne ben cotta, arrostita e saporita. Quando ebbe finito, il cuoco le domandò se le fosse piaciuta e di indovinare cosa fosse. Maria passò in rassegna gli animali che conosceva, ma il cuoco sempre scuoteva i baffoni ridacchiando.

Quando si arrese la risposta le venne servita con un contorno di risate: “topo!”

Fino a noi è giunto il ricordo disgustato della mia bisnonna Maria, che si guardò bene dal toccare altra carne finché fu li dentro, mentre dell’esperto cuocitor di roditori e del suo speciale talento si è persa la memoria. 




mercoledì 9 dicembre 2015

Le disavventure di uno storico



C'era una volta un tale che, durante le sue vacanze a Pettenasco, si era messo in testa di scrivere una storia, o per meglio dire un trattenimento storico, della Riviera di San Giulio, Orta e Gozzano.
Così sedette alla scrivania, prese penna, carta e calamaio e si accinse a scrivere il suo importante lavoro, con la finestra aperta per il caldo.

Ecco però che "le donne, quando il rigor del verno non le tiene nelle loro casupole intanate, o escono ai lavori di campagna, o portano fuori le loro sedie impagliate, mettonle agli usci e, fatta sala della via, una fa calzette coi ferruzzi, un'altra dipana, un'altra ancora cuce. 

Insomma tutte fanno il loro mestiere particolare; e in ciò sono divise, ma parlano in comune dallo spuntare fino al tramontare del sole. Ciò pure accade alla sera radunandosi alcune in una casa, alcune in un'altra, e trattando il fuso e la canocchia. 

E in aggiunta al cicaleggio avvi anche qualche madre, o nonna, o zia, la quale non sapendo come meglio educare il piccolo fanciullo, che le sta vicino alquanto irrequieto, tirando d'orecchi, dando ceffate, e con le aperte palme il tenero cularello percuotendo lo fa stridere e gridare quanto gli può uscire dalla gola, tantoché talvolta s'ode un coro di fanciulli che piangono, di donne che rinfacciano la crudeltà alla comare, e di comare la quale sostiene il suo metodo e fa le sue difese."

Per la cronaca, il lavoro di scrittura giunse alla fine, segno indubitabile che il cicaleggio non era così insopportabile o che i vecchi brontoloni sono sempre esistiti.



mercoledì 4 novembre 2015

Ricordando la Grande Guerra

Il monumento ai caduti ad Alzo di Pella


Oggi si ricorda la fine di un tragico conflitto. Un'immane tragedia che ebbe costi umani ed economici altissimi e creò le premesse di una seconda devastante guerra.


venerdì 24 luglio 2015

La sacra missione di Tolkien


Nel 1911 Tolkien e tre suoi amici con cui frequentava la King Edward’s School a Birmingham, Rob Gilson, Geoffrey Bache Smith e Christopher Wiseman fondarono una società semi segreta chiamata “T.C.,B.S.” (Tea Club, Barrovian Society). 

Il nome alludeva al fatto che le loro riunioni, in cui discutevano di mitologia e lingue antiche, libri e musica, si svolgevano ufficialmente nella sala da tè vicino alla scuola in Barrow Street e, segretamente, nella biblioteca della scuola. 

Con lo scoppio della guerra si trovarono al fronte, in compagnie diverse. Tolkien incontrò G.B. Smith prima di andare all’attacco durante la Battglia della Somme. Tornò stanchissimo, dopo aver combattuto per quasi 60 ore di fila, ma era  praticamente illeso, mentre molti suoi compagni erano stati uccisi o feriti. Nel campo di Bouzincourt trovò una lettera di G.B. Smith che lo informava che Rob Gilson era caduto il primo giorno dell’attacco con altri 19 mila, falciati dalle mitragliatrici tedesche. 

In un’altra lettera Smith gli scrisse di essere rimasto profondamente scosso dalla morte dell’amico e gli affidò un solenne impegno, una missione sacra: quelli di loro che fossero sopravvissuti avrebbero dovuto portare avanti la fiamma dei “T.C.,B.S.” e creare qualcosa di cui anche coloro cui la morte aveva impedito di farlo, avrebbero potuto essere fieri. 

Pochi mesi dopo, ancora convalescente per la “febbre di trincea” portata dai pidocchi, Tolkien apprese che anche Smith era morto per le ferite andate in cancrena.

mercoledì 13 maggio 2015

Viaggio al castello, tra diavoli e fantasmi. 1 – la battaglia

Dante Alighieri davanti al castello di Poppi



Mi capita talora di dover viaggiare per lavoro. Fortunatamente nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di luoghi molto belli. Talora sono anche carichi di leggende e storie. Voglio raccontarvi dell’ultimo in cui sono stato…

Pochi giorni fa, provenendo dalle vallate tridentine e dalle calde spiagge della Trinacria, risalendo lo stivale dalla bella Puglia e scendendo dal montano Piemonte siamo calati da ogni direzione in un luogo carico di storia: Poppi, al centro del Casentino. Un luogo in cui i destini se non dell’Italia quanto meno della sua cultura furono decisi sul campo di battaglia. Era sabato quel giorno ed era l’undicesimo giorno del giugno 1289. 

La strada che ho percorso per arrivare a Poppi è la stessa su cui, il 2 giugno di quell’anno lontano, s’incamminarono le truppe guelfe di Firenze: il passo della Consuma. Una decisione pericolosa, perché la strada era impervia, che era stata suggerita dai guelfi fuggiti dalla nemica Arezzo, che bene conoscevano quella via. 

I due comandanti dei guelfi fiorentini erano Guillaume Bertrand de Durfort e Aimeric de Narbonne, due francesi e due autentici professionisti della guerra. Ricordiamoci i loro nomi e lasciamoli alla testa dell’esercito, composto da circa duemila cavalieri e diecimila fanti, mentre s’inerpicano sulle montagne.

Spostiamoci invece sull’altro fronte, dove i Ghibellini d’Arezzo furono presi di sorpresa da quella mossa e costretti a dar battaglia nel luogo scelto dagli avversari: la piana di Campaldino, proprio sotto il castello dei conti guidi a Poppi. A guidarli il Vescovo di Arezzo, Guglielmo degli Ubertini. La sua guida non era solo spirituale - possiamo immaginarci la benedizione impartita ai soldati - ma soprattutto militare. Guglielmo aveva un concetto proprio, ma molto comune all’epoca, di come si dovessero regolare le questioni. Ad esempio, per porre fine a un contrasto che si trascinava da troppo tempo col monastero di Camaldoli fece bastonare i monaci dai suoi soldati. E poiché la legge vietava agli uomini di Chiesa di spargere sangue sul campo di battaglia Guglielmo ci andava con una mazza con cui poteva spaccare teste senza versarne.

Il terreno scelto per lo scontro era favorevole ai Fiorentini, dal momento che gli Aretini, che avevano ricevuto rinforzi da parte di tutti i Ghibellini italiani, avrebbero dovuto caricare in salita. E così fecero. Buonconte da Montefeltro guidò l’attacco di 300 feditori a cavallo, preceduti da dodici “paladini”. L’effetto sui feditori guelfi fu disastroso. Quasi tutti vennero disarcionati, ma continuarono a combattere a piedi, mentre i ghibellini si incuneavano tra le file nemiche.

Tra i feditori a cavallo schierati da Firenze c’era anche un giovane di nome Dante Alighieri che anni dopo confessò di aver provato “temenza grande” in quel frangente. Fortunatamente per noi e per le sorti della letteratura sopravvisse. E come lui un altro poeta, lo scanzonato Cecco Angiolieri che pure si trovava a Campaldino tra i guelfi.

Le sorti della battaglia, fino a quel momento molto incerte, vennero decise da Corso Donati, capo della riserva di cavalleria guelfa. Uomo poco incline a rispettare le regole, senza aspettare il comando, irruppe nella battaglia di propria iniziativa, incuneandosi tra la cavalleria e la fanteria nemica.

A quel punto Guido Novello di Poppi, che comandava la riserva ghibellina, giudicando persa la giornata si ritirò nel proprio castello. La battaglia si trasformò così in una caccia, dove i fiorentini e i loro alleati cercarono di catturare quanti più prigionieri. Ne presero un migliaio, buona parte dei quali fu riscattata in moneta sonante. I più poveri, quelli per cui i parenti non erano in grado di pagare, morirono nelle carceri di Firenze. La caccia terminò solo quando un violento temporale si abbatté sulla piana di Campaldino. Secondo una tradizione spesso le battaglie più cruente erano seguite da violente tempeste.

La battaglia fu infatti molto sanguinosa per l’epoca. Sul campo caddero circa 2000 combattenti, di cui circa 1700 ghibellini. Anche i comandanti non furono risparmiati. Guillaume Bertrand de Durfort fu abbattuto da un quadrello di balestra mentre tentava di organizzare la controffensiva. Guglielmo degli Ubertini fu ucciso da un colpo di picca alla testa. Con lui cadde il suo parente Guglielmo Pazzo, che inutilmente aveva cercato di difenderlo. 

Aimeric de Narbonne fu ferito al volto, ma sopravvisse, nonostante una tradizione pretenda che il suo fantasma si aggiri ancora per la piana di Campaldino. Fu accolto con tutti gli onori e “Amerigo” divenne un nome tradizionale a Firenze. Tra i tanti che lo portarono ci fu il fiorentino Amerigo Vespucci da cui prese il nome il continente scoperto da Colombo: America.

Un mistero grande avvolse invece Buonconte da Montefeltro, che non fu trovato né tra i vivi né tra i morti e nessuno ebbe più notizia di lui. A dare una risposta fu proprio Dante Alighieri che nella battaglia era stato suo nemico e che nel suo viaggio ultraterreno lo incontrò in Purgatorio. "Forato ne la gola" e in fin di vita, una lacrimuccia gli era bastata a salvare la propria anima carica di nefasti peccati. Così il Diavolo, che contava di vincere facile, preso da un accesso d’ira s’era accanito sul suo corpo, facendolo straziare e scomparire nelle acque dell’Arno.

Ma i diavoli a Poppi pare siano di casa. Nella seconda parte vi parlerò di una malefica contessa il cui spettro sembra non trovi pace…





mercoledì 6 maggio 2015

Storie di donne, di streghe e di acqua



Domenica 10 maggio si tornerà a parlare del progetto "Accendiamo la memoria". A Miasino, presso la straordinaria Villa Nigra avremo una giornata di studi di cui trovate il programma nella locandina

Darò il mio contributo con un intervento dedicato alle prime donne di cui si abbia notizia a Miasino (siamo nel II secolo prima di Cristo) per continuare poi parlando di antichi rituali e delle temibili streghe di Pisogno.

Temibili quanto meno secondo l'inquisitore che diede loro la caccia, poco meno di cinquecento anni fa...

mercoledì 11 febbraio 2015

Cronaca nera


La domenica prima del Carnevale dovrebbe essere un momento di festa, invece una discussione tra conoscenti è sfociata in una drammatica rissa, che ha coinvolto numerose persone. 

Ad avere la peggio è stato Bartolomeo Tartagna. Gravemente ferito, le sue condizioni sono apparse subito estremamente gravi, tanto che nonostante i soccorsi si è spento poco dopo. 

Colpito alla gola anche Gaudenzio Fortis, ma benché la ferita potesse avere conseguenze più gravi, è stato fortunatamente giudicato fuori pericolo.

A dare il via alla collutazione pare sia stato lo stesso Bartolomeno Tartagna, ben conosciuto in paese come uomo squilibrato, violento e facinoroso.

Testimone del fatto il notaio ortese Elia Olina, che ne lasciò notizia nel suo diario, nella cronaca dell’anno 1546. Egli aggiunse che il “suddetto Bartolomeo… da vivo non combinò che mali, procurandosi così la morte. Era odiato da quasi tutti i rivieraschi e anche dai suoi familiari.”

Sempre Olina ci informa che negli stessi giorni, per intercessione di suo padre Giovanni e di altri amici, fu fatta la pace tra gli uomini di Armeno e quelli di Miasino.

Con buona pace di quanti rimpiangono costantemente il buon tempo antico, quando non c’era internet a rovinare la gioventù…

mercoledì 17 dicembre 2014

La misteriosa fine della “Benedetto Brin”



La “Benedetto Brin” apparteneva alla classe di corazzate “Regina Margherita”, ideata dall’ingegnere, generale, ispettore del Genio Navale e deputato Benedetto Brin (Torino 1833 – Roma 1898) che nella seconda metà dell’Ottocento diede grande impulso alla marina militare italiana al punto che alla sua morte su 202 unità in servizio nella Regia Marina, ben 141 erano state ordinate o progettate da lui. Con la morte del Generale Brin il progetto fu portato avanti e modificato dal generale Ruggero Alfredo Micheli (Volterra 1847 – Roma 1919) direttore del cantiere di Castellammare di Stabia, dove la nave fu varata e ultimata il 1° settembre 1905.

La “Benedetto Brin” partecipò alle operazioni militati della guerra contro la Turchia per la conquista della Libia, prendendo parte all’attacco su Tripoli che portò alla presa della città. Allo scoppio della prima Guerra Mondiale, nel 1915, era l'unità di bandiera del contrammiraglio barone Ernesto Rubin de Cervin ed era comandata dal capitano di vascello Gino Fara Forni, nato a Pettenasco, sul lago d’Orta nel 1867.

Alle otto del mattino del 27 settembre del 1915 molte persone si radunarono come al solito sulla banchina del Viale Regina Margherita di Brindisi per assistere all’emozionante cerimonia dell’alzabandiera da parte delle navi ormeggiate nell’avamporto, tra il canale Pigolati e Forte a Mare. Si trattava delle corazzate “Dante Alighieri”, “Nino Bixio”, “Emanuele Filiberto” e “Benedetto Brin”. Nel porto erano inoltre presenti altre navi francesi, inglesi ed italiane. Mentre gli equipaggi erano radunati per la cerimonia e venivano suonati gli inni, improvvisamente, la “Benedetto Brin” esplose.

La devastazione provocata dall’onda d’urto fu immane. Senza calcolare i danni materiali, nella tragedia morirono 456 uomini su 943 d’equipaggio, precisamente, 433 marinai e 23 ufficiali, tra i quali lo stesso contrammiraglio Ernesto Rubin de Cervin.

Le cause della sciagura furono immediatamente oggetto di indagini, ma il mistero ancora aleggia attorno a questa nave e alle vittime della sua distruzione.

Quasi immediatamente venne esclusa la possibilità che l’esplosione fosse stata causata da un sottomarino nemico, in quanto l’entrata del porto era sbarrata con una rete metallica verticale tenuta tesa da galleggianti e strettamente sorvegliata. La propaganda ufficiale parlò di “vile attentato del nemico”, opera di sabotatori, ma i risultati dell’inchiesta vennero tenuti secretati “per non dare vantaggi al nemico”. 

In particolar modo non venne reso pubblico un rapporto che un anno prima proprio il capitano Gino Fara Forni aveva inviato a mezzo lettera alla Divisione Generale di Artiglieria ed Armamenti del Ministero della Marina a Roma. In esso denunciava una “deficienza di ventilazione e di refrigerazione della “Santabarbara” che faceva salire oltre il limite di sicurezza la temperatura interna. Il locale, dove erano immagazzinati materiali altamente pericolosi e infiammabili quali esplosivi, munizioni e gas, era oltretutto ubicato, con un’infelice scelta progettuale, proprio accanto alla sala dei motori e delle macchine. 

Nonostante fosse consapevole dei rischi il capitano Fara Forni era rimasto al suo posto, attendendo forse un intervento del Ministero che non vi fu. Morì con gli altri, al comando della propria nave, come nella migliore tradizione marinara.

domenica 9 novembre 2014

Venticinque anni dal crollo



Venticinque anni fa cadeva il muro di Berlino e con esso finiva un mondo. Qualche nostalgico dirà che si stava meglio quando si stava peggio, ma la Storia va avanti, ci piaccia o meno. Vale sempre la pena, però, ricordare cosa è accaduto.

Richiamo due post che scrissi tempo addietro. Il primo è dedicato ai ventenni di oggi (ormai venticinquenni, visto che il tempo passa per tutti). 

Il secondo è la storia della vicenda el Muro attraverso una canzone che parla di 99 palloncini

La serie dei racconti domenicali riprende la prossima settimana.

sabato 14 giugno 2014

L’amore ai tempi del gladio



Quando si parla dei Romani, quelli antichi intendo non quelli che popolano Roma oggi, in genere si oscilla tra due sentimenti. Ci sono quelli che esaltano la grandezza dell’Urbe, con le sue leggi  e i suoi monumenti, e quelli che sottolineano il lato sanguinario di un potere che per secoli non ebbe rivali. Eserciti di addestratissimi legionari che schiacciarono ogni resistenza da parte delle eroiche ma più deboli popolazioni confinanti. Come i Celti del nord Italia, sconfitti e oppressi dall’aquila di Roma.
Le cose, come sempre, sono più complicate e proprio per questo più interessanti. Un caso davvero intrigante è quello del vaso di Metelos, scoperto a Carcegna alla fine dell’Ottocento. Leggendo l’iscrizione che vi fu incisa si possono intravedere le tracce una storia d’amore interetnica tra il “romano” Metelos e sua moglie Asmina, che invece era di etnia celtica. 

Qui ne trovate anche una mia versione romanzata.

Se questa storia vi ha interessato, vi consiglio la lettura di un nuovo volume, dedicato a Carcegna, in cui vari autori ne analizzano la storia e le tradizioni. Tra queste cito il Cantarmarzo, che si svolgeva nottetempo alla fine di febbraio e animava la vita della comunità per qualche mese. Tra i vari articoli ce n’è anche uno mio dedicato alle origini di questo piccolo paese e agli interessanti ritrovamenti archeologici che vi furono effettuati. 

L’appuntamento è a Carcegna, nella chiesa parrocchiale, sabato 28 giugno alle 16,45.

mercoledì 26 febbraio 2014

La catastrofe possibile

Tra tanti catastrofismi più o meno improbabili che circolano oggi, viene generalmente poco considerato uno dei principali agenti naturali che influiscono sul clima, il vulcanismo. Forse ciò accade perché su di esso i comportamenti umani non hanno alcuna influenza e pertanto non è possibile mobilitare le persone attraverso campagne di sensibilizzazione? 

In ogni caso c’è un bell’articolo online che spiega cosa accadde a metà del VI secolo d.C. 

Qui invece trovate una serie di racconti su ciò che successe in seguito a quella che finora è stata considerata la più grande eruzione della storia. Preistoria? Niente affatto, correva l’anno 1815… 

mercoledì 15 gennaio 2014

Le ciotoline dell’arcobaleno


Secondo un’antica leggenda europea alla fine dell’arcobaleno è possibile trovare un tesoro. Nascosto dagli gnomi o da altre magiche creature poco importa. Ciò che importa è che si può trovare dell’oro e di ottima qualità. Talora in una pentola di terracotta dalla strana forma, altre volte semplicemente coperto dalla terra, in ogni caso monete d’oro che brillano e mostrano enigmatici segni magici a rilievo. 
E poiché queste strane monete gnomiche avevano una delle facce concave, erano chiamate “coppelle”, “ciotoline” o “scodelline dell'arcobaleno” (Regenbogenschüsselchen, in tedesco), in quanto si credeva che da esse si sprigionasse il ponte colorato.
La cosa sorprendente, infatti, è che queste ciotoline venivano realmente trovate dai contadini della Germania, dell’Austria e dell’Ungheria. Poiché molti di questi oggetti sono stati conservati è possibile dire qualcosa sulla loro origine.
Innanzitutto le misteriose iscrizioni che vi compaiono, per quanto composte in caratteri insoliti, sono perfettamente leggibili agli esperti. E non sto parlando di eccentrici cacciatori di gnomi, ma di normali archeologi (per quanto il termine “normale” possa applicarsi ad una creatura, donna o uomo che sia, che passa metà del suo tempo a fare buchi nel terreno e l’altra metà a consultare antichi testi).
Ebbene, queste monete d’oro riportano scritte e simboli del mondo celtico europeo e risalgono agli ultimi secoli del primo millennio avanti Cristo. Prima, comunque, che le quadrate legioni di Roma imponessero la propria moneta ai popoli dell’Europa. Il modello d’ispirazione erano le monete d’oro che circolavano nel mondo mediterraneo dopo le strabilianti conquiste di Alessandro Magno, il giovane re di Macedonia che a 33 anni era diventato padrone di un impero che andava dal mar Ionio all’Oceano Indiano. I motivi decorativi, per lo più astratti, e i nomi con cui erano coniate riflettevano però una cultura che all’epoca era in piena espansione.
Amanti dell’oro, oltre che del vino, i Celti coniarono moltissime di queste monete, anche se l’uso era quello di una società che apprezzava questi oggetti per il valore del metallo, non per quello convenzionale fissato dall’autorità (a differenza di ciò che facevano i Romani e noi ancora di più, evidentemente).
Piccoli e grandi tesori di queste monete furono sepolti in mezza Europa. Per sottrarli a eventuali nemici, ma anche come forme di accumulo in epoche in cui le banche non esistevano. Talora come tesori sacri votati agli dei. Eventi accidentali potevano impedirne il recupero o far decidere di occultarli per sempre.
Passarono i secoli e davanti agli occhi stupefatti dei contadini intenti a lavorare i campi cominciarono ad emergere, soprattutto dopo le piogge che dilavavano il suolo, monete che luccicavano al sole e facevano pensare che fossero esse la causa dell’arcobaleno. 
Talora alla prima moneta, grattando il terreno, seguiva una seconda, poi una terza e infine un intero vaso di terracotta pieno zeppo di monete d’oro. 
Motivo più che sufficiente, mi sembra chiaro, per inseguire la fine dell’arcobaleno.

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"Di un fatto del genere fui testimone oculare io stesso".

Ludovico Maria Sinistrari di Ameno.