Visualizzazione post con etichetta Leggende. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Leggende. Mostra tutti i post

giovedì 3 agosto 2023

La barca delle streghe

 



C'era un tempo sul lago di Omegna una barca magica che navigava solo di notte. Su di essa si radunava una squadra di streghe che grazie ad essa compiva viaggi lunghissimi nello spazio di una notte fino ai paesi caldi e, come si credeva, persino in America. Ma poiché erano streghe gentili, e più che streghe dovremmo definirle fate, il loro viaggio non aveva il fine di compiere malefici o nuocere alle persone. Essendo mosse dalla grande passione per i fiori se ne andavano semplicemente in luoghi lontani per raccoglierne di nuovi e mai visti e riportarli sulle montagne da cui erano partite.

Una cosa singolare di queste streghe è che una parte di quanto avevano raccolto veniva deposto in una chiesa. Di questo strano fenomeno si accorse un giovane sacrestano che non capendo da dove venissero quei fiori così belli e strani, che non aveva mai visto, decise di mettersi di guardia di notte per capire chi li portasse.

Con sua grande sorpresa vide arrivare una barca, che si muoveva silenziosissima da sola nell’oscurità. Visto che a bordo non c’era nessuno decise di salire a bordo, nascondendosi sul fondo della barca in un punto nascosto, coprendosi col mantello. Ad una certa ora giunsero tredici figure femminili che salirono a loro volta sulla barca. Prima di partire quella che era evidentemente la loro guida disse “Vada per 13!”

La barca però non si mosse. Allora, senza indagare oltre, disse “vada per quanti siamo!”

A quel punto la barca prese a filare velocissima e silenziosa, quasi volando sull’acqua, col sagrestano sempre ben nascosto. Quando giunsero alla meta le streghe scesero a raccogliere i fiori e così fece il giovane, che ammaliato da quei profumi ne raccolse quanti poté. Infine, temendo che potessero partire senza di lui tornò nuovamente a nascondersi sull’imbarcazione.

Quando anche le streghe furono tornate, il viaggio fu rifatto in direzione opposta. Così, senza essere visto né molestato dalle sue compagne di viaggio, il sacrestano tutto contento tornò a Omegna, correndo dai suoi amici per mostrare quei fiori bellissimi che aveva raccolto.

Lo attendeva però una brutta sorpresa. I suoi amici cominciarono a gridare che i fiori erano stregati e la loro presenza era opera del Demonio. E già minacciavano di denunciarlo. Allora sconvolto e spaventato buttò i fiori nel lago, separandosi a malincuore da quella poetica bellezza che il cuore duro degli uomini non aveva compreso, né accettato.

martedì 1 agosto 2023

Una tisana con la Maga

 


“Prendi ancora un po’ di tisana, caro.”

Ho risalito le pendici scoscese della montagna su cui vive la Maga per andare a fondo su un mistero. Durante uno strano rituale svoltosi a Pella, una signora proveniente da un paese noto per essere patria di famose streghe e stregoni, mi ha infatti invitato a indagare su un’antica leggenda. E ora tra un biscotto e una tisana eccomi qui nello studio della Maga ad ascoltare le sue parole.

“Devi sapere, caro, che quando si parla di streghe ci si può riferire a varie figure.

Innanzitutto, comunemente si parla di quelle donne che per varie ragioni finirono sotto le grinfie dell'Inquisizione. In larga misura erano donne che non avevano fatto nulla di male ed erano state accusate per invidia. In altri casi, anche qui senza avere nessuna colpa, erano dedite a pratiche di erboristeria o curavano le malattie o aiutavano le donne a far nascere i bambini. Donne magari un po’ sole, strane, diverse, che rifiutavano di integrarsi nelle regole della società, ultime seguaci di culti sciamanici antichissimi e che per questo venivano accusate e poi in certi casi condannate.

Nelle tradizioni e nelle leggende si parla poi di streghe come donne dotate di veri poteri magici, portate a fare del male alle persone. Numerosi erano i malefici che potevano provocare. Le accuse principali erano quelle di provocare temporali e tempeste devastanti, di nuocere al bestiame, di far ammalare le persone, di provocare la sterilità, fino all'accusa gravissima di uccidere dei bambini. Si diceva anche che alcune di queste streghe fossero in grado di esercitare la fisica e quindi di trasformarsi in animali per spiare le persone o per interferire con le loro vite.

Ma c'è un ultimo tipo di streghe. Queste in realtà non erano esseri umani, ma creature fatate e se in italiano vengono chiamate streghe il nome dialettale utilizzato per indicarle era “faj”. Sono le fate della tradizione antica precristiana, quella che possiamo far risalire al mondo celtico. Creature appartenenti al Piccolo Popolo, capaci di compiere inimmaginabili prodigi. Non necessariamente cattive, come del resto le fate delle fiabe più antiche che non sono né buone né cattive ma reagiscono a seconda delle situazioni e soprattutto del modo in cui gli esseri umani si avvicinano a loro. Ecco, la storia di cui mi hai chiesto riguarda questa tipologia di streghe.

Ma prima di raccontartela voglio dirti qualcosa sul come questa storia è giunta fino a noi. Devi sapere che nell'Ottocento una ragazza napoletana dovette scappare dal Regno delle due Sicilie col padre per motivi politici. A Torino trovò anche l’amore, sposando un piemontese, ma dopo sette anni di matrimonio rimase vedova. Allora, avendo anche un figlio piccolo, si dedicò alla scrittura un po’ per passione un po’ per sostentarsi. Tra le tante opere che scrisse una fu dedicata proprio alle leggende delle Alpi. Per realizzare questo lavoro si avvalse di una serie di corrispondenti che le fornirono indicazioni relative ai vari territori. Ora, uno dei suoi cortesi corrispondenti, come li definisce, si era occupato di raccogliere per quel volume tutte le leggende della valle Anzasca, ma tra queste ne aveva scovata una ambientata sul lago d'Orta, ad Omegna. Ed è una leggenda interessante perché in fondo è una storia gentile intorno alle streghe, che normalmente sono circondate da un'aura molto negativa."


domenica 31 luglio 2022

Galline con le mutande

 



Sambughetto è un paese che si trova più o meno a metà della Valle Strona ed è pieno di storia e storie interessanti. Vi potrei parlare del famoso marmo usato per celeberrimi edifici nazionali, del museo geologico che racconta quel “paradiso dei geologi” che è la valle Strona, oppure delle grotte con resti di animali estinti da migliaia di anni e le oscure leggende di streghe che da quei buchi uscivano per combinarne di tutti i colori. Oppure ancora della straordinaria capacità e ingegno degli abitanti, che si esplicò in numerosi contesti e luoghi, compresi eventi bellici che cambiarono il destino di intere regioni d’Europa.


Invece vi parlerò di galline. Sì, perché Sambughetto è un paese costruito su una rupe di roccia scoscesa e le strade e le case vi si adattano arrampicandosi le une sulle altre, collegate da scale e strade che farebbero venire un infarto a un bue di montagna. E nei tempi andati accadeva che qualche gallina, deponendo per la fretta l’uovo su un gradino o un ballatoio, lo vedesse poi rotolare fino a valle. Poiché all’epoca non si poteva sprecare nulla gli ingegnosi abitanti, secondo una leggenda ammantata di verità, idearono il rimedio adatto. Fecero indossare alle galline una specie di sacchetto raccogli uova. Da qui il detto scherzoso che a Sambughetto le galline portano le mutande.

giovedì 3 febbraio 2022

Omegna tra storia e leggenda

 



I più antichi ritrovamenti del territorio omegnese vengono da Cireggio e risalgono all’età preistorica. Nonostante alcuni altri ritrovamenti di epoca romana, è solo con il Medioevo che Omegna inizia ad emergere come centro abitato, con la presenza di un munito castello sull’altipiano di Cireggio e le mura cittadine difese da cinque porte, di cui resta ben visibile la  “Porta romana”, che in realtà risale a molti secoli dopo la fine dell'impero e coi Romani non c’entra nulla.

Dopo la vittoria del Vescovo di Novara sul Comune di Novara nel 1219 il lago d’Orta andò a costituire la Riviera di San Giulio e i Novaresi furono espulsi dal lago. Sconfitti sul piano militare decisero di giocare la carta della diplomazia e dell’intrigo per assicurarsi almeno un porto sul lago. Senza quello le merci che intendevano far transitare verso le Alpi sarebbero state gravate di dazi eccessivamente onerosi.

Poiché Omegna apparteneva ai signori di Crusinallo fu eletto podestà un certo Desiderato che era loro parente. Costui, usando abilmente lusinghe e promesse, riuscì a convincerli a vendere al Comune di Novara il borgo di Omegna e le terre circostanti per 1300 lire imperiali. Inoltre i signori di Crusinallo sarebbero diventati cittadini e soldati novaresi. In cambio vennero nominati governatori di quanto avevano ceduto. Avevano in sostanza perso la proprietà, ma mantenuto l’incarico. E in più avevano rimpinguato le casse della famiglia con un bel gruzzolo. In cambio di questo soddisfacente affare, ratificato nella convenzione dell'11 agosto 1221, il castello di Omegna ricevette il nome del podestà, diventando il Castello Desiderato.

Così almeno si narra, perché attorno alla storia di Omegna girano anche tante leggende più o meno attendibili.

Ci sono infatti leggende inventate dal popolo e altre messe in giro dagli storici, o sedicenti tali. A cui spesso vengono a dare manforte gli scrittori, che per professione devono inventare. Così attorno a Omegna sono sorte alcune storie abbastanza divertenti.

A cominciare dal nome, che alcuni vorrebbero far derivare da “Vae Moenia!” grido lanciato da Giulio Cesare dopo aver vanamente tentato di conquistare la città. Ora, a parte che l’episodio non è citato in nessuna fonte, sarebbe bene ricordare che il famoso conquistatore dell’intera Gallia, il trionfatore degli Elvezi e dei Germani, che aveva portato le insegne di Roma oltre la Manica e il Reno, espugnando fortezze, campi trincerati e città difese da eserciti ben superiori alle sue forze, aveva la carica di Proconsole della Gallia Cisalpina. Di cui il territorio di Omegna, ammesso che ai suoi tempi esistesse come villaggio, faceva parte integrante. E non si comprende perché avrebbe dovuto opporsi al proprio governatore.

Secondo lo scrittore Gianni Rodari nelle acque della Nigoglia fu trovata un'iscrizione in dialetto locale che recitava: «La Nigoeuja la va in su; e la legg la fèm nu!» («La Nigoglia scorre in su; e la legge la facciamo noi!»). Un modo per sottolineare l’indipendenza degli Omegnesi, che del resto si ritrova in un’altra leggenda.

Si racconta infatti che un giorno San Giulio, dopo aver cacciato i draghi dall’isola, cercò di sbarcare anche a Omegna. Ma gli abitanti non lo lasciarono avvicinare e presero a bersagliarlo con le rape. Per questo motivo nel territorio di Omegna, maledetto dal santo, le rape non crescono.


giovedì 15 marzo 2018

L'albero della Conoscenza



Ce ne stavamo seduti sotto le fronde di un albero, intenti a consumare le merende prima che i nostri passi ritornassero a portarci su sentieri divergenti.
Ogni tanto Evelyn e io lanciavamo qualche briciola di pane agli uccellini che scendevano a becchettare nell'erba. Alcuni più timidi si tenevano a distanza, mentre altri più coraggiosi o sfrontati si avvicinavano per cogliere i bocconi più grossi. 
Quella scena non poteva non evocare il ricordo di Hänsel e Gretel, del loro obbligato inoltrarsi in un bosco pericoloso fino alla casa di marzapane costruita come una trappola per bambini affamati dalla strega cannibale. 

Del resto più ci si inoltra nel fitto della foresta più gli alberi sono antichi e le loro radici profonde. Nessuno di essi tuttavia ha rami alti e radici profonde quanto un frassino ricordato da un'antica leggenda norrena.
Ad esso si rivolse un viandante, cieco di un occhio, che viaggiava appoggiandosi a una lancia ed era seguito da due corvi. Un tipo ingannevole, di quelli capaci di giurare sul proprio anello, mentendo spudoratamente. Un tipo di quelli, insomma, a cui sarebbe meglio non aprire la porta, se vengono a bussare dopo il tramonto. Un tipo troppo pericoloso, tuttavia, per rifiutargli gli antichi doveri dell'ospitalità. 

Il viandante era pronto a tutto per conquistare il potere della Conoscenza. Così egli cercò il grande frassino, "Yggdrasill lo chiamano, alto tronco lambito d'acqua bianca di argilla" com'è scritto nella Profezia della Veggente.

"Io so, fui appeso all’albero esposto al vento
per nove notti intere, ferito da una lancia
e sacrificato ad Óðinn, a me stesso,
a quell’albero di cui nessuno sa
dove affondino le radici.
Non mi saziarono col pane né dissetarono coi corni,
guardai in basso, conobbi le rune,
le conobbi soffrendo, e poi caddi giù."

Così il Viandante, che altri non era se non lo stesso re degli dei del Valhalla, Odino, conquistò il potere delle Rune sacrificando sé stesso ad Odino.





giovedì 5 ottobre 2017

Viaggio tra draghi, streghe, folletti e altre creature leggendarie del Cusio


Gli appassionati indagatori di misteri, i ricercatori di creature fatate e quanti amano le leggende possono venire a dare un'occhiata...

sabato 23 settembre 2017

Autunno, tempo di draghi, alieni e spade incantate



La durata dell'oscurità ha ormai superato quella della luce e poiché quella di Nibiru si è rivelata l'ennesima bufala per creduloni da tastiera, posso uscire dalla mia caverna e tornare a occuparmi del Lago dei Misteri.

Si moltiplicano le iniziative leggendarie sulle colline che incorniciano il nostro grazioso specchio d'acqua, che per inciso un celebre giornale anglosassone ha definito "uno dei dieci luoghi al mondo in cui fare il bagno almeno una volta nella vita". Che scusate se è poco. D'altro canto qui da noi ormai l'acqua è tornata di un limpido da poter essere paragonata a celebri località marine.
Per non parlare dei pesci. Questa estate, mentre cercavo misteriosissime rovine sommerse, ho avuto modo di dare un'occhiata sotto la superficie. La quantità di pesciolini che nuotavano qualche metro sotto la barca era veramente impressionante. D'altro canto il lago d'Orta fu sempre pescosissimo e un tempo ci vivevano pescatori che usavano grandi reti per catturare pesci che esportavano ovunque. Ora che la pesca è limitata a qualche canna potete immaginare quanto essi si vadano moltiplicando, approfittando dell'acqua carica di delizioso plancton.

Comunque, lasciamo i pesci e veniamo ai draghi. In queste ore dalle parti di Bolzano (Bolzano Novarese, naturalmente) il drago del lago sta diventando un arazzo. La Rete Solare per l'autocostruzione sta infatti svolgendo un laboratorio di due giorni per imparare a realizzare un tappeto-arazzo in feltro di lana secondo le antiche tecniche artigianali dell’Asia minore. Attraverso il lavoro collettivo di tutti i corsisti verrà realizzato un grande arazzo ispirato al mito del drago dormiente nel lago d’Orta. Forse è un po' tardi per iscrivervi, ma potete andare a dare un'occhiata. Qui trovate tutte le informazioni.

Domani, domenica 24 settembre si svolgerà la terza edizione di Miasino Fantasy, con un ricco programma dedicato principalmente ai bambini.

Nel frattempo, all'altro capo del lago, là dove la Nigoglia rompe le buone regole degli emissari dei laghi prealpini, dirigendo coraggiosamente le sue acque contro le Alpi invece che verso la pianura, sono sbarcati gli UFO. Se non ci credete andate a vedere di persona. Ci sono anche alcuni alieni che hanno occupato il Forum Omegna, come testimonia la foto di apertura.

Quella che per me è però in assoluto la notizia più bella dell'estate ci porta nelle acque di un altro misteriosissimo lago. Sto parlando naturalmente del Dozmary Pool, in Cornovaglia. Se non lo conoscete ve ne racconto la storia.

Un giorno di tanti anni fa, quando a fatica i personaggi di quelle terre cominciavano a uscire dall'oscurità per incamminarsi nelle incerte nebbie della leggenda, un re di nome Artù sostò in lacrime sulla sua riva. Per stupido orgoglio aveva spezzato la spada che anni prima aveva estratto dalla roccia, rendendolo re di Britannia. Senza spada e con molti nemici ai confini, foschi scenari si affollavano nella sua mente. 
Improvvisamente dalle acque emerse la Dama del Lago, cui le leggende attribuiscono vari nomi, tra cui quello di Viviana. Essa consegnò ad Artù una spada invincibile il cui nome è leggenda. Artù utilizzò per l'ultima volta Excalibur nella battaglia di Camlann, quando alla testa di un esercitò di Britanni sconfisse gli invasori Sassoni guidati dal traditore Mordred, figlio incestuoso dello stesso Artù. Mentre infuriava lo scontro, padre e figlio si affrontarono in un duello reciprocamente mortale.
Ferito a morte, Artù fu trasportato verso la misteriosa isola di Avalon. Nel frattempo il cavaliere Bedwyr, obbedendo alle ultime volontà del re, gettò Excalibur nel Dozmary Pool.

Questa estate una bambina di sette anni, Mathilda Jones, ha scorto uno strano oggetto sul fondo del Dozmary Pool. Tuffandosi ha ripescato una spada lunga un metro e venti. 
Quale che sia la reale origine di questo oggetto ho trovato questa notizia molto divertente, perché ci ricorda quanto i miti e le leggende ci accompagnino ancora oggi. 

mercoledì 10 giugno 2015

Un'elegante cacciatrice

Ieri sera, uscendo di casa per sbrigare una di quelle simpatiche occupazioni note come “portare fuori la spazzatura” ho notato in mezzo alla strada un animaletto.

“Cosa fai lì, micetto?” ho chiesto, preoccupato del possibile sopraggiungere di un’automobile.
Non che mi aspettassi una risposta naturalmente, ma rientra nella normalità parlare agli animali. I problemi casomai cominciano quando ti rispondono…

Ad ogni modo l’animaletto mi guardò in modo strano, dopodiché fece dietro front, portandosi sull’altro lato della strada. Fu allora che mi avvidi dell’errore. Quello che avevo di fronte non era un gatto, ma certamente un mustelide. Fece un po’ avanti e indietro, senza mostrare troppo timore, prima di lanciarsi di corsa per la strada verso il cancello di una vecchia fabbrica semidiroccata, dentro cui svanì.

Non avevo modo di fotografarlo, ma in seguito, controllando sul web, ho ipotizzato potesse trattarsi di una donnola, viste le piccole dimensioni e una certa eleganza che distingue questo grazioso animale dalla più grossa faina.

Proseguendo nell’opera di documentazione ho scoperto che la donnola era considerata da Brunetto Latini, il celeberrimo maestro di Dante Alighieri, il peggior nemico di una temibile creatura di cui abbiamo già avuto modo di parlare.

E pensando alle balze scoscese e pietrose che si trovano alle mie spalle ho rivolto un pensiero di riconoscenza alla piccola e graziosa donnola che pattuglia queste aspre rocce alla ricerca del suo grande avversario e della sua preda più ambita: il velenoso e pericolosissimo basilisco.



mercoledì 19 febbraio 2014

Di calamari giganti, bovini d’acqua e pesci primaverili



Ormai sul lago d’Orta non si parla d’altro. Negli uffici commerciali, nelle fabbriche di rubinetti, nelle aule scolastiche la domanda è una sola: “hai sentito del calamaro gigante?”
La questione è fresca, anzi freschissima, dal momento che il mostruoso animale sarebbe stato non solo pescato, ma poi rigettato nelle chiare, fresche e dolci acque del bacino cusiano. Come sempre succede in questi casi, fioriscono le ipotesi, i commenti e le prese di posizione, che vanno dall’incredulità (“ ma siamo sicuri??”) all’ironia (“possibile che non possa farmi una nuotata che arriva un rompiballe a guastarmi la mia mezz'ora di relax? colpa ne ho se sono un ragazzo tentacolare!!!”), all’indignazione. Perché c’è chi l’ha presa male, molto male, e insorge contro questo modo di promuovere il lago d’Orta spargendo “bufale pazzesche” (ed è il termine più riferibile).

mercoledì 15 gennaio 2014

Le ciotoline dell’arcobaleno


Secondo un’antica leggenda europea alla fine dell’arcobaleno è possibile trovare un tesoro. Nascosto dagli gnomi o da altre magiche creature poco importa. Ciò che importa è che si può trovare dell’oro e di ottima qualità. Talora in una pentola di terracotta dalla strana forma, altre volte semplicemente coperto dalla terra, in ogni caso monete d’oro che brillano e mostrano enigmatici segni magici a rilievo. 
E poiché queste strane monete gnomiche avevano una delle facce concave, erano chiamate “coppelle”, “ciotoline” o “scodelline dell'arcobaleno” (Regenbogenschüsselchen, in tedesco), in quanto si credeva che da esse si sprigionasse il ponte colorato.
La cosa sorprendente, infatti, è che queste ciotoline venivano realmente trovate dai contadini della Germania, dell’Austria e dell’Ungheria. Poiché molti di questi oggetti sono stati conservati è possibile dire qualcosa sulla loro origine.
Innanzitutto le misteriose iscrizioni che vi compaiono, per quanto composte in caratteri insoliti, sono perfettamente leggibili agli esperti. E non sto parlando di eccentrici cacciatori di gnomi, ma di normali archeologi (per quanto il termine “normale” possa applicarsi ad una creatura, donna o uomo che sia, che passa metà del suo tempo a fare buchi nel terreno e l’altra metà a consultare antichi testi).
Ebbene, queste monete d’oro riportano scritte e simboli del mondo celtico europeo e risalgono agli ultimi secoli del primo millennio avanti Cristo. Prima, comunque, che le quadrate legioni di Roma imponessero la propria moneta ai popoli dell’Europa. Il modello d’ispirazione erano le monete d’oro che circolavano nel mondo mediterraneo dopo le strabilianti conquiste di Alessandro Magno, il giovane re di Macedonia che a 33 anni era diventato padrone di un impero che andava dal mar Ionio all’Oceano Indiano. I motivi decorativi, per lo più astratti, e i nomi con cui erano coniate riflettevano però una cultura che all’epoca era in piena espansione.
Amanti dell’oro, oltre che del vino, i Celti coniarono moltissime di queste monete, anche se l’uso era quello di una società che apprezzava questi oggetti per il valore del metallo, non per quello convenzionale fissato dall’autorità (a differenza di ciò che facevano i Romani e noi ancora di più, evidentemente).
Piccoli e grandi tesori di queste monete furono sepolti in mezza Europa. Per sottrarli a eventuali nemici, ma anche come forme di accumulo in epoche in cui le banche non esistevano. Talora come tesori sacri votati agli dei. Eventi accidentali potevano impedirne il recupero o far decidere di occultarli per sempre.
Passarono i secoli e davanti agli occhi stupefatti dei contadini intenti a lavorare i campi cominciarono ad emergere, soprattutto dopo le piogge che dilavavano il suolo, monete che luccicavano al sole e facevano pensare che fossero esse la causa dell’arcobaleno. 
Talora alla prima moneta, grattando il terreno, seguiva una seconda, poi una terza e infine un intero vaso di terracotta pieno zeppo di monete d’oro. 
Motivo più che sufficiente, mi sembra chiaro, per inseguire la fine dell’arcobaleno.

sabato 22 giugno 2013

Divagazioni su alberi e selvatici


Oggi pomeriggio presso lo spazio AGLAIA ARTS AND CRAFTS in via Manfredi 11 a Omegna discuteremo con alcuni amici di selvatiche creature dei boschi. Niente a che vedere con la caccia, tengo a precisare, anche se alcune di queste creature sono effettivamente oggetto di una caccia scientifica tesa a dimostrarne l'esistenza.

Dallo Yeti al Popobawa, passando per il mito antichissimo di Enkidu, attraversando i terreni misteriosi e intriganti della leggenda e del folklore.


“DIVAGAZIONI SU ALBERI E SELVATICI” sarà una conferenza-racconto con Paolo Crosa Lenz, scrittore, membro del GISM (Gruppo Italiano Scrittori di Montagna) e interventi di Massimo Bonini, esperto di dialetto locale, Igor Cavagliotti, dottore agronomo e forestale,  Andrea Del Duca, direttore dell’Ecomuseo Cusius che si terrà sabato 22 giugno alle ore 16 presso la sede della mostra.



La mostra

Titolo mostra: Alberi&selvatici
Opere di: Giovanni Crippa, Renato Luparia, Guido Omezzolli, Gregorio Piazza, Nadia Presotto, Roberto Ripamonti
Tecnica: scultura, pittura, fotografia
Luogo: AGLAIA ARTS AND CRAFTS via Manfredi 11, Omegna
Periodo: 15 giugno- 13 luglio 2013
Inaugurazione: sabato 15 giugno ore 17.30
Apertura: da giovedì a sabato dalle 16.30 alle 19.30 
Patrocinio: Comune di Omegna, Ecomuseo Cusius
Informazioni: 0323 62836- 349 3568546 – mail: laboratorigranerolo@lagodorta.net

La mostra riunisce espressioni artistiche diverse, accomunate però dalla trattazione di uno stesso tema. Due scultori (Crippa e Omezzolli), tre pittori (Piazza, Presotto e Ripamonti) e un fotografo (Renato Luparia)rappresentano e divagano su boschi, cortecce, “uomini selvatici”. La stele in gres si affianca allora alla tela bituminosa da cui spunta il volto amico di un folletto, il cerchio celtico evoca riti antichi, forse nei boschi intorno al lago, la radica diventa delicata espressione materica, le stampe propongono filari e maestosi alberi delle colline piemontesi.

domenica 27 gennaio 2013

Il drago di metallo sull'isola del santo


Sull’Isola di San Giulio si trova un enigmatico oggetto metallico dalla forma di drago. Cosa ci fa un drago all’interno di uno dei luoghi più sacri e antichi della Chiesa novarese? Di cosa si tratta? Quali oscuri misteri nasconde?

Poiché a noi piacciono i misteri, ma soprattutto capire qual è la storia vera che si cela dietro essi, siamo andati a sentire il parere di un’autentica esperta, Fiorella Mattioli, che ne ha parlato alcuni anni fa un convegno dal titolo “Da San Giulio a San Giorgio. Draghi e Basilischi dalle Alpi alla Cina” 

Il ricordo di Satana che poi alla fine la Chiesa deve ridurre all’impotenza – perché l’Apocalisse stessa ci dice che alla fine dei tempi la donna vestita di sole lo schiaccerà definitivamente (ecco tra l’altro il ruolo della Madonna come grande sauroctona, insieme alle sante Marta, Cristina di Bolsena, Margherita d’Antiochia, ma quante altre donne scacciatrici di draghi!) – prende forma in un attrezzo liturgico usato durante le rogazioni, cioè l’antichissimo rito, che vede le sue origini nel V secolo nella diocesi di Vienne in Francia, atto a invocare Dio, la Vergine e i Santi con formule propiziatorie e richieste di liberazione da ogni tipo di male, affinché proteggano il territorio e le campagne e qui con scopi soprattutto propiziatori per la fertilità, ma anche di liberazione.
Chiamato anche “uccellaccio”, il drago delle rogazioni, che si può trovare anche all’isola di San Giulio, aveva una specifica funzione all’interno dell’apparato liturgico, che comunque sempre è un grande apparato scenico. 
Il drago veniva utilizzato appunto nelle rogazioni, cerimonie propiziatorie della natura che venivano fatte proprio in primavera, nel periodo tra san Giorgio e san Marco, in cui si richiedeva l’intervento di tutte le potenze perché ci fossero buoni raccolti, piogge opportune e si impetrava affinché “a peste, bello, malo, libera nos Domino” (“dalla peste, dalla guerra e dal male liberaci o Signore”, ndr). 
Questi riti svolti in forma processionale duravano tre giorni ed erano sempre accompagnati dal drago processionale, che veniva collocato in tre punti diversi della processione e in tre situazioni diverse.
Il primo giorno se ne andava baldanzoso, a capo della processione, con la famosa coda dritta e la bocca piena di fiori (a Parigi addirittura venivano buttati dolci e fiori nella bocca di questo drago che era in vimini, mentre i nostri sono di metallo). 
Il secondo giorno era collocato a metà della processione, ed aveva un aspetto meno fiero, procedendo con la coda allineata al corpo, adorno di pochi fiori L’ultimo giorno, quello del trionfo di Cristo sulle forze del male, il drago chiudeva il corteo, con la coda a penzoloni, l’aspetto mogio e la bocca aperta priva di fiori.

Se volete leggere tutto l’articolo e gli altri interventi di quel convegno potete trovarli qui

La foto è di Daniele Maria Valle che l’ha voluta condividere con noi su Facebook 



giovedì 20 dicembre 2012

Il giorno prima della fine del mondo



Ricordo che anni fa ci raccontavano di come gli uomini attorno all’anno Mille fossero stati presi dall’oscuro timore di una imminente fine del mondo. Ne parlavano con un sorriso di compatimento per gente che viveva nei “secoli bui” dominati dall’ignoranza e la superstizione.

Eravamo però negli anni Settanta e in televisione furoreggiavano telefilm come “Spazio 1999” e si pensava che nel Duemila l’umanità avrebbe avuto a disposizione impensabili strumenti tecnologici, avrebbe dialogato con computer intelligenti e sarebbe partita per colonizzare lo spazio.

Le cose sono andate un po’ diversamente, come sappiamo. Abbiamo internet e la connessione globale, ma poche donne portano i capelli viola. Nessuna, che io sappia, le aderentissime divise di maglia metallica delle bellissime ragazze che costituivano il reparto scelto di stanza permanente su Base Luna. A dire il vero non ho mai capito per quale motivo occorresse superare un concorso di bellezza per far parte di questo corpo speciale di stanza sul nostro satellite, ma all’epoca ero troppo giovane per interessarmi di queste cose ed ero molto più affascinato dagli UFO che sbucavano ruotando dallo spazio profondo per conquistare la Terra, in un altro telefilm di successo. Ma non divaghiamo.

Non erano anni facili i Settanta, c’è da dire. Tra la crisi economica e il terrorismo che insanguinava le strade e le piazze c’era poco da stare allegri. Oltretutto ci trovavamo in mezzo a due superpotenze che si guardavano in cagnesco con il dito pronto a schiacciare il pulsante dell’Apocalisse Atomica. Eppure, salvo qualche setta di mattoidi, nessuno parlava di fine del mondo. 

Superato il giro di boa dell’anno Duemila, coi suoi timori millenaristici, sono arrivati i Maya, o quanto meno la loro interpretazione apocrifa. Domani, 21 dicembre 2012 finirà il mondo. Anzi no, ha corretto qualcuno, la data è sbagliata e forse va spostata alla primavera del 2013. Anzi no, non si tratta di fine del mondo ma dell’inizio di una nuova era di maggiore consapevolezza ha precisato qualcun altro, forse temendo di essere smentito dagli eventi come è successo ai tanti profeti di sventura che nei secoli hanno predicato l’imminente fine del mondo.

Ovviamente non so cosa accadrà domani, perché nessuno conosce il futuro. Certamente da alcuni anni, dal 2001 almeno (o forse in quell’anno ce ne siamo drammaticamente resi conto), stiamo assistendo se non alla fine del mondo alla fine di un mondo, il nostro. La società occidentale è in piena decadenza, economica e spirituale. Le energie che l’hanno sostenuta e fatta crescere sembrano averla abbandonata ed essere migrate in altri continenti.

La fine di una storia è però sempre l’inizio di un’altra. I Maya parlavano di cicli storici che si rinnovavano. Al di là del sistema di calcolo adottato, su cui si potrebbe discutere a lungo, in quello avevano ragione. Cosa accadrà da domani lo sapremo solo vivendo, per citare una famosa canzone. Molto, in ogni caso, dipenderà da noi e dalla nostra volontà di rendere il mondo un posto migliore in cui abitare.  



venerdì 7 dicembre 2012

Come una maledizione



«Si trova là, nel lago!» 
La donna indica un punto imprecisato tra la riva e l’isola di San Giulio. L’acqua è immobile, come è frequente nelle fredde mattine invernali, ma io so che sotto la superficie a specchio del lago d’Orta si muove un mondo che ben pochi conoscono. Pesci in gran numero, di varie specie, forme e dimensioni, compresi alcuni alieni che da qualche tempo vi si sono insediati, colonizzando il nuovo mondo grazie ai loro esoscheletri robusti come corazze e ad un set di armi da far invidia a Predator.
Non ci sono solo animali là sotto però. Mi hanno parlato di fondali che improvvisamente si muovono, lasciando scoperti larghi tratti di roccia in cui appaiono incongrui fori. Come se qualcuno si fosse messo a bucare la roccia, ma a profondità incompatibili con tutto quello che sappiamo della storia del lago. Mi hanno mostrato le foto di rocce che sembrano rozzi idoli scolpiti, ma anche questo è ovviamente impossibile. E mi hanno raccontato questa storia, che ho voluto verificare di persona.
«La pietra è là davanti» ripete la donna. «E c’è una scritta su di essa.»
Mi chiedo chi possa aver avuto l’idea di incidere una scritta immergendosi a vari metri di profondità. O ci fu un tempo in cui il lago era sensibilmente più basso di oggi? O forse qualcuno l’ha gettata in acqua?
«Quando mi vedrete, piangerete».
Questo è ciò che sta scritto in quella rozza lapide forse neppure sbozzata. Cosa significhi nessuno lo sa. Non è dato nemmeno sapere in che lingua sia incisa: italiano, latino, celtico o forse etrusco? E se così fosse non si comprende come la donna, che non è un archeologa, potrebbe averla decifrata. 
Del resto i sub che l’hanno cercata non hanno trovato nulla a parte un altro strano masso pieno di chiodi, dicono.
Ma si sa, questo è il lago dei misteri. E conserva molto bene i suoi tanti segreti.

domenica 25 marzo 2012

Ronzanti pungiglioni volanti



Fin dall’antichità le api furono considerate simbolo dell’operosità, della fatica virtuosa e dell’ordine. La loro natura sociale ne faceva il modello a cui ispirarsi per le comunità umane, in particolar modo quelle dalla struttura gerarchica fortemente piramidale.
Così nell’antico Egitto il simbolo geroglifico dell’ape indicava il Faraone. Che comandava su sudditi che evidentemente desiderava veder lavorare, operosi, instancabili e obbedienti come api.

Per contro le vespe erano usate per indicare uomini feroci, dediti al male e nascosti in luoghi sotterranei e inaccessibili. I loro nidi erano simbolo degli inferi, da cui era meglio tenersi alla larga. Infatti ancora oggi si dice “cadere in un vespaio” per indicare luoghi pieni di malignità e pericoli.
Invece i prodotti delle api andavano sugli altari. Nelle candele, la cera era simbolo della carne di Cristo, lo stoppino della sua anima e la fiamma della sua divinità. Le vespe al contrario erano simbolo dell’eresia, insidiosa, pericolosa e da soffocare col fumo e il fuoco.

Le api compaiono negli emblemi araldici come simbolo di operosità, lavoro e dolcezza. Famose sono le tre api della famiglia romana Barberini; o le api sul mantello di Napoleone, che rappresentavano l’industriosità dei Parigini e riprendevano un antico simbolo dei primi re francesi.
Mentre i sovrani tenevano per sé le api, sul lago d’Orta, per la precisione a San Maurizio d’Opaglio gli abitanti delle diverse frazioni venivano indicati con “titoli” scherzosi. Così gli abitanti di Briallo erano i “Matarogn” (calabroni), mentre quelli di Lagna “Vesp” (vespe). E c’è da scommettere che quando s’incontravano volassero scintille.

La vespa insomma per molto tempo ebbe una fama negativa, di animale collerico e attaccabrighe, dedito al male. Ci volle una guerra per cambiare questo sentire diffuso. Nel 1944 una casa motociclistica con sede a Pontedera (PI) fu costretta a trasferire la produzione nel Biellese, zona ritenuta più sicura rispetto ai bombardamenti degli Alleati.
Qui venne concepito un prototipo di scooter denominato Moto Piaggio 5 o MP5 Paperino. Il prototipo non venne messo in produzione, ma nel 1946 fu rielaborato e divenne il modello della Vespa Piaggio, che rivoluzionò i trasporti negli anni Cinquanta con la sua praticità ed economicità.

Dalla Vespa nacque un altro veicolo di grande successo. Nel 1948 venne progettato un motofurgone su tre ruote che originariamente era una vespa con un rimorchio attaccato. E l’Ape Piaggio ebbe un successo straordinario.
Per dimostrare la validità del mezzo, nel 1998, due milanesi, che si fanno chiamare gli Apenauti effettuarono la traversata del continente euroasiatico, da Lisbona a Pechino a bordo di due Ape TM a miscela.

La foto è una cortesia di ELE.

domenica 11 marzo 2012

Un tralcio molto antico



Quando si parla di singhiozzo nelle barzellette si pensa agli ubriachi. Ma chi prese la prima, mitica sbronza? Secondo la Bibbia il patriarca Noè, sfuggito al Diluvio Universale, scese dall’Arca e cominciò a coltivare la vite. Fu il primo e poiché non conosceva gli effetti del vino ne bevve troppo e si addormentò ubriaco fradicio e mezzo nudo.
Secondo i Greci il vino giunse nella loro terra dall’oriente. Fu Dioniso, il dio straniero, a portarlo. Infatti era raffigurato con una tazza in mano ed era accompagnato da un corteo di satiri ubriachi. Nell’Odissea invece l’astuto Ulisse, consapevole degli effetti che poteva avere, per sfuggire al gigante cannibale Polifemo gli offrì tantissimo vino. E quando quello si addormentò, completamente sbronzo, lo accecò bruciandogli l’unico occhio.

Quando colonizzarono l’Italia meridionale i Greci introdussero la coltivazione della vite che attecchì così bene che quelle terre presero il nome di Enotria vale a dire “terra dove si coltiva la vite e si produce il vino”.
Alcuni studiosi ritengono però che la vite fosse già coltivata in Italia prima dell’arrivo dei Greci. Gli Etruschi la coltivavano infatti con un sistema diverso. Facevano crescere i tralci appoggiandoli agli alberi invece di sorreggerli con bastoni. Il sistema della “vite maritata”, come viene chiamato, fu introdotto dagli Etruschi anche nella Pianura Padana, dove avevano fondato dodici città (ma a parte Bologna, Mantova e Marzabotto l’ubicazione delle altre rimane misteriosa).

Poiché il clima era diverso dalle calde colline mediterranee fu necessario selezionare dei vitigni resistenti al freddo e ai climi nebbiosi della pianura. Nacque così l’antenato del Nebbiolo.
Poiché le popolazioni celtiche che vivevano dall’altra parte del fiume Po apprezzavano molto il vino impararono a loro volta a coltivare la vite. Nel frattempo vendevano i pregiati vini greci ed etruschi ai loro cugini Galli che abitavano dall’altra parte delle Alpi.

I Celti avevano un loro modo di trattare il vino. Innanzitutto coltivavano la vite maritata secondo il metodo etrusco. Tracce di queste coltivazioni si vedono ancora nel Novarese, ad esempio a Carpignano Sesia.
Inoltre erano capaci di costruire botti grandi come case, come riferirono gli sbigottiti viaggiatori Romani. E poi bevevano il vino puro, come la birra che producevano da tempo immemorabile, prendendo sbronze epiche. I Romani invece tagliavano il vino con l’acqua e altre sostanze come miele, frutta e petali di fiori. E persino diacetato di piombo, detto zucchero di piombo, per addolcirlo. Un composto molto pericoloso per la salute. Dopo di che davano dei  barbari ai Celti.

domenica 12 febbraio 2012

La luna e le sue leggende



La luna fu dall’antichità un comodo calendario per gli uomini, che vagavano senza fissa dimora sulla superficie della terra. Le sue fasi ben riconoscibili consentivano di dividere il tempo in cicli costanti. Non c’è da stupirsi pertanto che la Luna compaia nei miti e nelle leggende di tutti i popoli.
In particolare la Luna compare nel mito della Triplice Dea, che è una e trina, e corrisponde alle fasi della luna crescente, piena e calante. Secondo lo studioso Robert Graves «la Luna nuova è la dea bianca della nascita e della crescita; la Luna piena, la dea rossa dell'amore e della battaglia; la Luna calante, la dea nera della morte.». Le tre sono descritte anche sotto forma di una Giovane seducente, una Madre accogliente e una Vecchia sapiente.

Vi sono poi molte credenze popolari riguardo alla luna, ad esempio rispetto al momento in cui tagliare la legna o i capelli. Così, si dice che i capelli tagliati in luna crescente crescano più belli, più forti e più sani.
La saggezza contadina insegna che la semina e il trapianto dei fiori vanno eseguiti con la luna crescente, così come la messa a dimora di siepi e arbusti. Con la luna calante vanno invece effettuate le potature delle siepi.

Brillando nell’oscurità di una luce incerta, la Luna era considerata però protettrice di entità misteriose, spesso pericolose, da cui stare alla larga. Si credeva ad esempio che nelle notti di luna piena alcuni uomini potessero trasformarsi in Licantropi.
Nelle notti senza luna, invece, da un uovo deposto da un vecchio gallo di sette anni su un mucchio di letame e covato da un rospo poteva strisciare fuori il Basilisco, che poteva ucciderti semplicemente fissandoti negli occhi.

Vi è anche una leggenda curiosa che riguarda la luna e il paese di Montebuglio, una frazione di Casale Corte Cerro. Esso si trova proprio di fronte al Mergozzolo, montagna da cui sorge le Luna. Una sera, all’osteria del paese qualcuno disse che con un po’ di accortezza la si sarebbe potuta prendere mentre spuntava dal monte.
La sera successiva partirono di buon’ora, armati di scale, uncini e corde. Discesero nella valle, attraversarono la Strona e risalirono col passo veloce dei montanari il Mergozzolo. Col fiato in gola arrivarono sulla cima… giusto per vedere che la luna era già alta in cielo. E dando la colpa alle loro scale, troppo corte, se ne tornarono scornati a casa a Montebuglio.

domenica 29 gennaio 2012

L’arte di dirigere l’ospitalità


Nel 1492 un capitano genovese al servizio della corona di Spagna stava dirigendo una piccola flotta di navi attraverso l’Oceano Atlantico. Il 12 ottobre, dopo quasi due mesi di navigazione senza vedere terra, avvistò una costa sconosciuta, cui diede il nome di San Salvador. Cristoforo Colombo credeva di aver fatto il giro del mondo e di trovarsi in Asia. In realtà era finito alle Bahamas e di fatto aveva scoperto le Americhe, ma finché campò non volle ammetterlo.
Narra la leggenda che durante quelle lunghe settimane in mare, a dirigere la cucina ci fosse un cuoco originario del Lago d’Orta, per la precisione di Armeno. Tutto il Cusio del resto è tradizionalmente terra di cuochi, camerieri, chef, direttori d’albergo e di quanti lavorano nel settore alberghiero, ma Armeno è considerata la capitale di quanti lavorano in questo settore.

Nella prima metà del Cinquecento Carlo V d'Asburgo si trovò sulla testa le corone di Re di Spagna, Re d'Italia, Arciduca d'Austria e Imperatore del Sacro Romano Impero Germanico. E poiché l’impero che dirigeva aveva colonie anche nelle Americhe e in Asia si vantava che su di esso il sole non tramontasse mai.
Carlo V, secondo un’altra leggenda, aveva però una debolezza. Era molto affezionato al suo cuoco che gli preparava delicati manicaretti adatti alla sua salute cagionevole. E poiché il suo cuoco era originario di Armeno, ogni volta che questi aveva nostalgia della patria e chiedeva di poter tornare a casa per un poco, lo faceva scortare da uomini fidati con il compito di ricondurglielo sano e salvo.

Armeno però non è patria di semplici cuochi. Molti armeniesi fecero carriera e si trovarono ai vertici di strutture alberghiere importanti, incontrando strada facendo i più famosi protagonisti della storia.
Come, ad esempio, Luigino Lucchini che ancora ragazzetto lavorava come cameriere e portava tutte le mattine il mazzo di rose baccarà che la direzione dell’albergo offriva a Wallis Simpson, la donna per cui Edoardo VII d’Inghilterra aveva lasciato il trono nel 1936.

Giorgio Marzi, allora direttore dell’Hotel Royal di Courmayeur, si trovò invece ad affrontare un curioso problema. L’ascensore che doveva portare Sandro Pertini nel suo appartamento era troppo piccolo per contenere anche la scorta. Il Presidente tolse tutti dall’imbarazzo con una battuta, dicendo che si sentiva più tranquillo se l’avesse scortato da solo il giovane direttore.
Oggi ad Armeno è ancora attiva e vitale un’associazione di Alberghieri che ha anche allestito un piccolo museo dove espone orgogliosamente tanti ricordi e memorie di una vita trascorsa all’insegna del detto che a tavola, chiunque sia, per il cuoco o il cameriere, è sempre il Re.

domenica 15 gennaio 2012

La balena di Orta e le acciughe erranti



Nella Sacristia della Basilica di San Giulio sta appeso un osso arrivato chissà come sull’isola. Secondo alcuni sarebbe stato rinvenuto nel “Bus de l’orchera” una piccola grotta sulla penisola di Orta.
Secondo il Cotta, che scriveva alla fine del Seicento esso veniva mostrato ai “creduli curiosi” e indicato come l’osso di uno dei draghi cacciati da San Giulio.

Uno studio pubblicato nel 2007 ha dimostrato invece che si tratta di una vertebra di un esemplare giovane di Balenottera comune del Mediterraneo. (1)
E l’osso non risale ad epoche antiche. Apparteneva forse a qualche animale spiaggiato su una costa marina. Che venne macellato, come risulta dalle tracce lasciate sull’osso. Dopodiché, chissà in quale modo, la vertebra giunse sul lago d’Orta per essere spacciata come osso di drago ai “turisti” dell’epoca.

Sempre dal mare venivano però anche altre creature. In questo caso erano acciughe salate e conservate. Erano gli abitanti della Valle Maira, sul confine con la Francia, ad occuparsi della loro commercializzazione. Alla fine dell’estate, quando i lavori dei campi finivano scendevano in pianura per vendere le acciughe.
Percorrevano grandi distanze, vendendo le acciughe non solo in Piemonte, ma anche in Lombardia, spingendosi fino in Veneto ed Emilia. Uno di loro, di solito il capofamiglia, andava in Liguria a comprare la merce, spedendola poi a quello che sarebbe diventato il punto di partenza. Da qui gli altri componenti della famiglia partivano con le acciughe salate sui carretti.

Cosa spinse dei montanari abituati a vivere in quota a percorrere le pianure per vendere pesce di mare sotto sale? Si ritiene che l’origine di questa curiosa professione sia da ricercare in un’altra attività, più rischiosa.
Trovandosi nei pressi del confine erano dediti anche al contrabbando del sale, a quei tempi merce rara, costosa, e gravata da alti dazi e tasse. Così, per nasconderlo presero a coprirlo con strati di acciughe sotto sale. Rendendosi conto del business delle acciughe sotto sale decisero che era giunto il momento di riconvertire la propria attività. E divennero anciuè.

C’è da dire che nei nostri laghi si trova un pesce che è una sorta di cugino di acqua dolce dell’acciuga, l’agone, il cui nome scientifico è Alosa fallax lacustris.
A Castelletto Ticino sono stati trovati vasetti di ceramica del VII sec. a.C. usati per la preparazione del missoltino, un modo tipico dei laghi lombardi per conservare l’agone sotto sale. E sono stati trovati anche vasetti dall’età del ferro che contenevano quella che era in sostanza una sorta di pasta di acciughe salata, con tanto di nome “alausa” scritto in caratteri celtici.


(1) Pietro Gallo, Il drago d'Orta, in "Antiquarium Medionovarese", II, Arona, 2007, p. 273.

martedì 20 dicembre 2011

Una magica canzone


Ci sono musiche che emergono dal passato e attraversano i secoli conservando una straordinaria capacità di suggestione. E sanno caricarsi di nuovi significati grazie al lavoro di altri musicisti.
È il caso di un brano contenuto nel “Primo libro de' balli accomodati per cantar et sonar d'ogni sorte de instromenti” di Giorgio Mainerio, stampato a Venezia nel 1578.

L’autore è un personaggio davvero singolare. Un prete nato a Parma dalle origini misteriose. Qualcuno ha sostenuto che fosse di origine scozzese per via del cognome, che scriveva anche Mainer.
Sembra però certo che egli appartenesse invece all’antica famiglia de Maynerijs, che per inciso è molto legata al nostro territorio. Era stato infatti il podestà di Novara Jacobus de Maynerijs nel 1193-94 a promuovere la fondazione di un Borgo, che da lui prese il nome di Borgomanero.

In ogni caso è certo che il prete musicista Giorgio Mainerio si trasferì, attorno al 1560, ad Udine dove finì presto nei guai. Si mormorava infatti che si interessasse un po’ troppo di magia, negromanzia e altre scienze occulte.
E poiché si diceva che nottetempo si accompagnasse a certe donne, andando con loro nei boschi e per i campi a compiere inquietanti rituali, il tribunale dell’Inquisizione avviò delle indagini che però non giunsero ad un processo, perché prove di queste dicerie non furono trovate.

In ogni caso Giorgio Mainerio decise di cambiare aria, diventando Maestro di Cappella della Chiesa d'Aquileia nel 1578. Nello stesso anno pubblicò il suo libro dei balli in cui uno sembra essere ispirato proprio alle musiche ascoltate durante i rituali notturni a cui aveva partecipato ad Udine.
Il titolo Schiarazula Marazula si ispira ai Beneandanti e alle loro battaglie con le streghe e gli stregoni a colpi di "sciarazz" e "marazz",  canna e finocchio. Il testo originale di questo ballo non si è conservato, se pure ne aveva uno. Ma sappiamo che nel 1624 alcune donne friulane furono denunciate all’Inquisizione per aver eseguito questo ballo per invocare la pioggia.

Nel 1977 il cantautore Angelo Branduardi riprende il brano inserendolo nell’album “La pulce d’acqua” con il titolo “Ballo in fa diesis minore”.
Il testo è ispirato al tema della danza macabra che compare in molti affreschi medievali e in particolare in quelli di Clusone in cui la Morte, con una corona in testa, dirige le danze. Il testo si ispira però anche ad altre danze medievali aventi un aspetto magico rituale. Danze che si pensava fossero in grado di fermare il tempo. Cosicché la Morte stessa, incantata dalla musica, avrebbe perso il suo potere sugli uomini.

Angelo Branduardi – Ballo in fa diesis minore


Post più popolari

"Di un fatto del genere fui testimone oculare io stesso".

Ludovico Maria Sinistrari di Ameno.