Sono certo della sua presenza qui, sulla bianca spiaggia di Anakena, il luogo dove prese terra la canoa del leggendario Hotu Matu’a. Una notte il suo spirito era volato ad est e gli aveva mostrato un’isola bellissima e disabitata, di nome Mata ki te rangi, che significa “occhi che guardano il cielo”, spronandolo a lasciare la terra di Hiva per colonizzare la nuova patria. Lasciò la patria su canoe grandi come navi per inseguire quel sogno. Lo seguivano uomini e donne e bambini, che portavano con loro semi, galline e maiali. Ma il viaggio fu lungo, probabilmente più lungo del previsto, e quando raggiunsero, finalmente, la nuova terra i maiali erano finiti e non restava che qualche gallina da allevare.
Già prima, tuttavia, avevo già avuto l’impressione di non essere solo. Mi trovavo davanti all’ahu Tongariki, restaurato negli anni novanta del secolo scorso. Dall’alto di queste piattaforme cerimoniali i moai, le grandi statue degli antenati, avevano diffuso per secoli il loro prezioso mana per far crescere le coltivazioni e far prosperare gli esseri umani. Per questo ognuno dei clan a cui era stato assegnato un tratto dell’isola possedeva il suo ahu coi suoi moai.
La sensazione si era fatta più forte mentre sedevo sull’erba profumata che cresce sulle pendici del Rano Raraku, all’ombra di uno dei moai che da secoli attendono invano di mettersi in cammino per raggiungere i loro ahu. In questa cava, dove la roccia tufacea del vulcano era scolpita in forma di statua mediante scalpelli di basalto, tutto sembra essersi fermato all’improvviso. Le statue in fase di lavorazione ancora intrappolate nella roccia, quelle ultimate in piedi, immobili in una stasi destinata a durare.
Ero quasi riuscito quasi a convincermi dell’assurdità di quell’idea, poiché ero certamente solo con la mia ombra davanti ai moai abbattuti di uno dei tanti ahu della costa. Una furia selvaggia li aveva atterrati durante le guerre tribali che avevano sconvolto l’isola quando le risorse si erano rivelate insufficienti alla crescita della popolazione
Fu un’ombra furtiva tra le rocce istoriate del villaggio di Orongo ad inquietarmi nuovamente. In mezzo alla sinistra sagoma del Tangata manu, l’Uomo Uccello che campeggia in centinaia di petroglifi che celebrano i vincitori della sacra competizione con cui si sceglieva l’uomo sacro a Makemake, il grande dio della creazione.
Ma come dicevo all’inizio è solo sulla bianca spiaggia di Anakena, sull’isola che porta il nome di Te Pito Te Henua, l’ombelico del mondo, che ho la certezza di essere stato seguito anche sull’isola più distante da qualsiasi altra terra abitata. Una prova materiale, che prendo delicatamente tra le mani che tremano. Una bottiglia contenente un messaggio, come nelle più classiche storie di avventura, con la differenza che, in questo caso, non si tratta di una classica storia di avventura…
Caro Alfa, leggo nel messaggio, se vuoi risolvere l’enigma che ti tormenta devi indagare sul vero Yanez.
La storia, ovviamente, continua…
Già prima, tuttavia, avevo già avuto l’impressione di non essere solo. Mi trovavo davanti all’ahu Tongariki, restaurato negli anni novanta del secolo scorso. Dall’alto di queste piattaforme cerimoniali i moai, le grandi statue degli antenati, avevano diffuso per secoli il loro prezioso mana per far crescere le coltivazioni e far prosperare gli esseri umani. Per questo ognuno dei clan a cui era stato assegnato un tratto dell’isola possedeva il suo ahu coi suoi moai.
La sensazione si era fatta più forte mentre sedevo sull’erba profumata che cresce sulle pendici del Rano Raraku, all’ombra di uno dei moai che da secoli attendono invano di mettersi in cammino per raggiungere i loro ahu. In questa cava, dove la roccia tufacea del vulcano era scolpita in forma di statua mediante scalpelli di basalto, tutto sembra essersi fermato all’improvviso. Le statue in fase di lavorazione ancora intrappolate nella roccia, quelle ultimate in piedi, immobili in una stasi destinata a durare.
Ero quasi riuscito quasi a convincermi dell’assurdità di quell’idea, poiché ero certamente solo con la mia ombra davanti ai moai abbattuti di uno dei tanti ahu della costa. Una furia selvaggia li aveva atterrati durante le guerre tribali che avevano sconvolto l’isola quando le risorse si erano rivelate insufficienti alla crescita della popolazione
Fu un’ombra furtiva tra le rocce istoriate del villaggio di Orongo ad inquietarmi nuovamente. In mezzo alla sinistra sagoma del Tangata manu, l’Uomo Uccello che campeggia in centinaia di petroglifi che celebrano i vincitori della sacra competizione con cui si sceglieva l’uomo sacro a Makemake, il grande dio della creazione.
Ma come dicevo all’inizio è solo sulla bianca spiaggia di Anakena, sull’isola che porta il nome di Te Pito Te Henua, l’ombelico del mondo, che ho la certezza di essere stato seguito anche sull’isola più distante da qualsiasi altra terra abitata. Una prova materiale, che prendo delicatamente tra le mani che tremano. Una bottiglia contenente un messaggio, come nelle più classiche storie di avventura, con la differenza che, in questo caso, non si tratta di una classica storia di avventura…
Caro Alfa, leggo nel messaggio, se vuoi risolvere l’enigma che ti tormenta devi indagare sul vero Yanez.
La storia, ovviamente, continua…
. . . e io ovviamnte ti seguirò!
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