domenica 31 maggio 2015

L’ultimo bacio

Scarica il n. 32


Ti sento arrivare come il vento che accarezza l’erba dei prati. Ti muovi nel buio della camera senza esitazione. Segui un percorso ben noto ed eviti d’un soffio gli oggetti e i fili che mi circondano.
Vorrei alzare la testa, ma non riesco neppure a muovere la punta delle dita. O  guardarti, ma le mie palpebre sono sigillate come sepolcri. Almeno dirti qualcosa: che sei bella e terribile come un esercito schierato a battaglia; che ti voglio da così tanto tempo da aver perso il conto. Ma ho fiato appena per respirare. 
Sei sempre più vicina. Sento la febbre che infuria dentro di me. Quante volte ti ho desiderata? Rigato il cuscino di lacrime? Incendiato il cielo con le mie urla?
Ti chini su di me. Mi accarezzi con lo sguardo. Mi ascolti respirare. C’è stato un momento in cui ero terrorizzato. Poi ho capito che sono nato per incontrarti. Ora ho bisogno di te. Solo tu sai come darmi quello di cui ho bisogno. Insegnarmi cose che nessuno mi ha mai mostrato.
Nella notte fonda chiami il mio nome. Le tue labbra si avvicinano alle mie. Un bacio, l’ultimo, e la mia anima sarà finalmente libera da un corpo diventato prigione.



Il racconto è stato scritto per il numero 32 di A6Fanzine. Il tema era “The Kiss” e il racconto è largamente ispirato ai testi di questo mitico gruppo musicale. 
Potete divertirvi a cogliere le citazioni.



venerdì 29 maggio 2015

Il codice segreto dei Tolkien

La chiesa di S. Maria Immacolata 


J.R.R. Tolkien ed Edith Bratt si sposarono il 22 marzo 1916 nella chiesa di S. Maria Immacolata a Warwick. 

Il 2 giugno Tolkien, che era già arruolato come ufficiale nei Lancashire Fusiliers, ricevette il telegramma in cui si annunciava la partenza per la Francia. In quei giorni la media delle perdite tra gli ufficiali sul Fonte Occidentale era di una dozzina al giorno. Edith, in preda all’angoscia, visse per mesi con il terrore che qualcuno bussasse alla porta per annunciarle la morte del marito. 

Per superare le maglie della censura, che visionava ogni lettera inviata dal fronte, e far giungere qualche informazione sulla sua posizione e condizione, Tolkien elaborò un codice segreto che consentiva a Edith di tracciare i suoi movimenti su una mappa. 



mercoledì 27 maggio 2015

domenica 24 maggio 2015

Morte in passerella



«Si spengono le luci e nel buio della sala si spande la musica, come un ritmo di marcia, nervoso, scattante, energico. E – quando modelle dai tacchi vertiginosi avvolte dalla luce avanzano sulla passerella tra due ali di oscurità – la vita inonda la passerella. Nessuno tra il pubblico si chiede quanto durerà quello spettacolo. Va in scena e tanto basta, perché si celebra la vita lì sopra e il tempo pare fermarsi in questo presente luminoso. Un essere effimero tra due diversi non essere. Un oggi che dimentica rapidamente la successione di ieri e vive nella speranza di un’illimitata – o quanto meno lunga – successione di domani. 

I bambini non riescono a concepire l’idea del tempo che passa. Gli adulti non vogliono. I giorni dell’uomo sono contati, ma nessuno finché vive può contarli, può solo numerare quelli passati e desumere da quelli quanti non ne potrà più vivere. Per questo i bambini sono allegri e i vecchi sono tristi. 

Nel frattempo sulla passerella si continua ad esorcizzare in un tripudio di bellezza e di spreco – ben pochi di questi vestiti saranno portati fuori da qui, la maggior parte non sarebbe nemmeno indossabile se non sopra queste assi di legno ricoperte di moquette, sotto questi riflettori e tra queste ali di ombra da cui occhi curiosi osservano ogni dettaglio – quello che viene dopo, quando la luce si spegne e l’essere incontra il non essere, quando l’oggi incontra il suo domani e comprende finalmente – o purtroppo – il suo passato. Quando la Vita incontra la Morte, quando la Vita incontra Me.

Ci sarà una sorpresa oggi in passerella, qualcosa a cui non pensano lo stilista, né i tecnici, né i bodyguard, né i fotografi, né le modelle, né alcuno tra il pubblico. Tutti pensano che le porte siano chiuse ed il Tempo sia fuori, ma il Tempo passa anche se il Tempo, naturalmente, non ha alcun senso per me. Io sono qui, nonostante le porte sbarrate, nonostante la security, nonostante nessuno – né lo stilista, né i tecnici, né i bodyguard, né i fotografi, né le modelle, né alcuno tra il pubblico – abbia pensato né, tanto meno, voluto mandarmi l’invito. Sono qui e tra poco sarà il mio turno di salire in passerella, ma né lo stilista, né i tecnici, né i bodyguard, né i fotografi, né le modelle, né alcuno tra il pubblico mi vedrà arrivare né, tanto meno, applaudirà la mia opera quando la vedrà.

Sarà un aneurisma cerebrale per quell’attrice plaudente tra il pubblico in prima fila, la quale già pensa – devo ottenere quella parte ad ogni costo – a quando indosserà il suo vestito nuovo alla festa che il suo amico produttore – amante – darà il mese prossimo nella villa di Malibù. 

Per l’anoressica modella lituana che sta uscendo ora dopo l’ennesimo cambio d’abito – il tempo passa in fretta per voi, non per me – che ha ricoperto la nudità dei suo trentotto chili per un metro e settanta di ossa, poca carne e negli occhi di ghiaccio troppa paura di perdere il lavoro – la sua amica è stata licenziata per aver superato i cinquantaquattro chili su un metro e settantaquattro di giovane donna – sarà un arresto cardiaco – definizione imprecisa ne convengo, giacché a porre fine alla vita è sempre un arresto del muscolo cardiaco – a far spegnere per sempre i riflettori. 

Una pista di coca fatta in bagno pochi minuti fa – capita più spesso di quello che si creda – sarà la causa di un’inarrestabile emorragia cerebrale per il fotografo tatuato e muscoloso, sul cui biglietto da visita – squallidamente offerto alle ragazze in discoteca: “conosco gente importante, posso fartela conoscere, certo, dipende da te, da cosa sei disposta a fare” – sta scritto, tra l’altro, “talent scout”. 

Una pallottola uscita dalla canna della pistola, improvvisamente impugnata da un innamorato deluso – non voleva nemmeno uccidere, povero pazzo, voleva solo fare un gesto dimostrativo, ma la mano di un altro bodyguard ha fatto partire il colpo indirizzando la pallottola contro il collega – che protesta perché è stato cacciato ed il suo posto è stato preso da quel suo nemico insinuatosi con l’inganno nelle grazie dello stilista, mettendolo in cattiva luce e servendosi di persone che credeva amiche – di chi, poi? ma sarebbe da pazzi inseguire i deliri dei paranoici – a tranciare la giugulare del muscoloso body guard all’ingresso.

Sarà il cortocircuito di un’apparecchiatura difettosa – devo dargli un’occhiata, c’è qualcosa che non va, ma ora non c’è tempo, lo farò dopo – a fulminare nel retropalco il tecnico delle luci, mentre guarda le modelle passargli accanto come se non esistesse e pensa – in quel continuo via vai di corpi agghindati e pitturati – a quanto gli piacerebbe avere ciò che non gli sarà mai concesso di avere, e il suo sogno resterà tale. 

Sarà un passo di troppo nel buio oltre la luce – si vede male con quei fari sparati negli occhi – dove una dura punta di metallo, coperta da un velo leggero di tessuto, attende il cranio fragile dello stilista, stramba e improbabile sorte – improbabile prima, naturalmente, perché dopo diventa notizia e storia e precedente presto dimenticato – e così poco elegante, ponendo la parola fine alla serie dei suoi giorni e, inevitabilmente, a questo spettacolo.

Sarà così, per ciascuno – e potrei enumerare la sorte di tutti quanti si trovano in questa sala e fuori da qui, compresa la tua che leggi e ora cerchi ansiosamente ferro o legno o carne da toccare con la mano – sarà così ora, in questo preciso istante, o sarà tra poco – un giorno un mese, un anno, che importa? per me il Tempo non ha senso – per ciascuno di loro, di voi, in momenti diversi o tutti assieme.

Irromperò sulla scena all’improvviso e prenderò l’attrice o la modella o il fotografo o il bodyguard o il tecnico delle luci o lo stilista o forse alcuni o forse tutti – uno psicopatico che irrompe sulla scena, gridando che deve interrompere il corso del Destino, e lancia una bomba che provoca un incendio che divampa ed avvolge la sala, riempiendola di fumo e di panico, ma tutte le uscite di sicurezza saranno sbarrate, chiuse per evitare ingressi non autorizzati, e lo stilista, il tecnico, il bodyguard, il fotografo, la modella, l’attrice e persino lo psicopatico si accalcheranno inutilmente contro di esse e finiranno i loro giorni gli uni sugli altri, soffocati dal fumo – forse anche tu che leggi – ma non lo puoi sapere e smettere di ascoltare servirà solo a farti restare con il dubbio – e niente sarà più uguale a prima, anche se chi resterà – che sfortuna per loro, che fortuna per me che posso raccontarla – cercherà di far finta di niente, di andare avanti – the show must go on – soprattutto se saranno figure minori – minori per chi poi? Non certo per loro o per chi li conosce bene – dello spettacolo ad essere prese. 

Il pubblico applaude, le modelle sfilano, il fotografo scatta, il bodyguard affronta il pazzo, il tecnico manovra le luci, lo stilista aggiusta gli ultimi dettagli, tu leggi e tutto sta per accadere.»


Il racconto in stile digressivo, sul tema leopardiano moda e morte, fu scritto per una rivista che doveva andare oltre le mode e invece è morta.





venerdì 22 maggio 2015

Tolkien e l'Anello del Nibelungo



Tolkien non amava Richard Wagner (1813-1883). 

Nonostante questo alcuni critici hanno ipotizzato un’influenza dell’opera del musicista e scrittore tedesco, che introdusse molti elementi originali rispetto alle saghe germaniche, come la “Völsunga saga”, a cui entrambi si ispirarono. 

Ad esempio hanno evidenziato i legami tra l’Unico Anello e l’Anello del Nibelungo: il malvagio gnomo nibelungo Alberich possiede un anello che gli conferisce il potere sul mondo, ma che corrompe l’animo di chi lo possiede. 

Tolkien negò esplicitamente ogni rapporto e al proposito scrisse: “Entrambi gli anelli sono rotondi e le somiglianze finiscono qui”.

mercoledì 20 maggio 2015

Viaggio al castello, tra diavoli e fantasmi: 2 - la torre

Molto tempo prima che si svolgesse la battaglia di Campaldino, a Poppi viveva una giovane e avvenente Contessa. Così almeno narra la leggenda, che ci ha tramandato anche il suo nome. La bella Matelda era andata in sposa, com’era usanza a quei tempi, a un uomo molto più vecchio di lei, un nobile della potente famiglia dei Guidi, il quale oltretutto era assente perché impegnato nelle Crociate. Così almeno aveva mandato a dire, ché la scusa delle Crociate era vecchia già a quei tempi.

Ad ogni modo Matelda si trovava sola a fronteggiare un nemico insidioso, i richiami della propria carne che, come in una famosa canzone, le facevano dire: “troppo giovane son io / e il nero è un triste colore”.

La giovane Contessa non era però donna da arrendersi a un destino avverso. La storia non dice se il marito all’atto della partenza avesse previdentemente cinto di una ferrea cintura di castità i suoi bianchi fianchi. Verosimilmente non lo fece, in quanto questa usanza è soprattutto una leggenda da storie umoristiche. Ma se pur il Guidi si decise a usare tale prudenza la donna dovette essere più astuta, trovando il modo di farsi fare una chiave di scorta da qualche fabbro.

Risolto quel problema Telda si mise alla ricerca di un sistema per placare il diavolo che le bruciava dentro. Lasciata da parte l’acqua santa, che non sembrava avere alcun potere, il suo sguardo fu attratto da un giovane menestrello, dalla dolce voce e dal bell’aspetto. Ovviamente non ci mise molto a farlo entrare nel proprio letto, tanto più che quello, lusingato e affascinato, intravedeva solo i vantaggi di essere sotto la protezione di una si bella e ricca nobildonna.

Giorno dopo giorno il giovane deliziava la sua Signora col sole e con la luna, finché esausto o forse essendogli venuto a noia quel tran tran o forse ancora sentendo la nostalgia della mamma, della partita a calcetto con gli amici e delle altre cose che agli uomini alla fine stanno a cuore e che per via della bella Contessa stava trascurando, le chiese il permesso di partire. Lo chiese per cortesia di ospite, ma anche perché si era accorto che tutte le porte erano ben serrate e non c’era modo di fuggire da quella torre attraverso le strette feritoie da cui a malapena poteva entrare la luce del sole.

Sulla bella fronte di Telda apparve una ruga di disappunto. Non solo il giovane voleva separarsi da lei, ma per il suo stesso mestiere di cantastorie non dava certo garanzia di essere persona capace di mantenere il massimo riserbo su quanto era accaduto dentro quelle mura.

Ad ogni modo, facendosi giurare che sarebbe presto tornato da lei, gli concesse il permesso di partire. E gli fece pure un bel dono, come pegno d’amore. Il giovane, felice, s’incamminò per la scala segreta che la bella Telda gli aveva detto di prendere per uscire non visto da alcuno. In cuor suo già pregustava il momento in cui avrebbe potuto trovarsi con gli amici all’osteria e davanti a un bicchiere di vino sbandierare le sue avventure amorose.

Proprio in quell’istante però una botola si aprì sotto i suoi piedi e il disgraziato, straziato dalla caduta e dalle lame affilate che sporgevano dalle pareti, precipitò in un buio sotterraneo, da cui inutilmente levò le sue ultime disperate invocazioni di aiuto.

A quel tempo i menestrelli andavano e venivano in continuazione e spesso sparivano da una parte per ricomparire da un’altra. Matelda aveva quindi messo a punto un metodo efficiente per coniugare le proprie voglie alla massima discrezione. E lo attuò senza sosta.

Fin troppo, perché i menestrelli giovani e belli non erano una risorsa senza limiti. Poi forse qualche sospetto nella categoria aveva cominciato a girare, dal momento che tutti quelli che dicevano di voler andare a Poppi non si vedevano più in giro.

Tilde però non poteva più fermarsi e così rivolse le sue attenzioni ai migliori giovani del paese, che cominciarono a scomparire misteriosamente. Ma il paese era piccolo e la gente cominciava a mormorare. Per questo, forse, o perché alla fine la Giustizia o il Diavolo ci mettono sempre il naso, qualcosa andò storto. 

Forse quella notte il giovane che si allontanava dalla Contessa scendendo la tragica scala aveva dei sospetti e stava all’erta. Forse il meccanismo s’inceppò. Certo è che la vittima designata si avvide della trappola e riuscì a fuggire. 

Il suo racconto riempì d’orrore la popolazione che diede l’assalto alla torre e trovò la conferma dei peggiori sospetti. Decine di scheletri giacevano nel sotterraneo e dalle orbite vuote sembravano ancora urlare la propria disperata richiesta di aiuto.

Lo sdegno di fronte a quel delitto si tramutò in cupo furore. La Contessa fu richiusa nella fortezza, che da allora assunse il triste nome di Torre dei Diavoli. E lì fu lasciata a morire di stenti.

Una leggenda dice che di notte il suo spirito inquieto si aggiri ancora tra quelle mura, cercando l’amore di qualche bel giovane…

Devo precisare che l'immagine di apertura si riferisce al Castello dei Conti Guidi, che fu edificato in epoca più tarda rispetto ai fatti tramandati attorno alla Contessa Matelda. La Torre dei Diavoli si trova da qualche parte alle mie spalle, più o meno quindi dove trascorsi la notte. Ovviamente non corsi alcun pericolo né ebbi alcuna strana avventura nell'albergo...





domenica 17 maggio 2015

L’uomo che liberò il caffè

Moka 



Il cervello dell’uomo coi baffi lavorava febbrilmente quel giorno. Quindici anni prima l’Alfonso, così si chiamava, era rientrato dalla Francia per aprire una piccola fabbrica ad Omegna. Non era facile mandarla avanti in quel 1933. Un anno di crisi, che seguiva anni terribili. Il crollo della Borsa del Ventinove aveva lasciato senza lavoro milioni di persone in tutto il mondo. Comprensibile quindi che il mercato dei prodotti per la casa si fosse contratto. 

L’Alfonso si tormentava i baffi, cercando di farsi venire un’idea. Altrimenti, prima o poi, avrebbe dovuto chiudere la fabbrica e tornare a fare l’emigrante. Lasciare la famiglia sarebbe stata dura. Guardò il Renatino giocare in cortile e la moglie, che stava accendendo il fuoco sotto la lisciveuse piena di biancheria sporca, e pensò che farsi un caffè fosse il modo migliore per scacciare i cattivi pensieri. 

Prese la napoletana e versò l’acqua nella caldaia fino a mezzo centimetro sotto al forellino. Poi riempì il serbatoio, compattando il caffè con un cucchiaino. Praticò quindi un paio di forellini sulla superficie e avvitò il filtro. Infilò il tutto nel serbatoio dell’acqua e incastrò sopra il serbatoio del caffè. Pose sul fuoco e attese finché vide alcune gocce d’acqua uscire dal forellino. Allora afferrò la caffettiera e la girò con un colpo secco, per evitare che l’acqua bollente, invece di colare attraverso la polvere e il filtro, si spargesse sul pavimento o addosso a lui. 

L’aroma del caffè giustificava quel rituale lungo e laborioso, persino pericoloso. L’alternativa, del resto era buttare la polvere a bollire nell’acqua di un pentolino e poi versare facendo depositare il fondo nella tazza.

Col caffè in mano l’Alfonso tornò in cortile dove la lisciveuse funzionava ora a pieno regime. L’acqua bolliva in quella specie di grossa pentola e risaliva nel tubo per ricadere sui panni, amplificando così l’azione della lisciva. Certo, l’acqua non aveva un bel colore, era scura quasi quanto il suo caffè...

Fu allora che la vide. Davanti a lui c’era l’idea. Posò la tazzina e corse a prendere carta e matita per fissarla. Quando ebbe finito guardò il foglio e un largo sorriso gli si disegnò sotto i baffi. Con quella caffettiera fare il caffè sarebbe stato facile, facilissimo e persino suo figlio avrebbe potuto prepararlo senza pericoli! 


L’Italia degli anni Cinquanta era un’Italia ottimista. Uscita dalla guerra aveva voglia di dimenticare gli orrori e guardare al futuro, alla modernità, al progresso. Le novità si diffondevano ad una velocità impensabile fino a pochi anni prima, utilizzando tutti i mezzi della tecnologia: ferrovie, autostrade, telefoni, radio, televisione erano tutti mezzi sfruttabili da chiunque avesse un’idea in testa e la voglia di farla conoscere. 

Quando la sera la gente si riuniva nei bar o nei cinema per vedere le nuove trasmissioni televisive, dal piccolo schermo un Omino coi Baffi vantava le proprietà della caffettiera. 

«Sì, sì, sì sembra facile fare un buon caffè!» esclamava l’Omino coi Baffi.

E gli spettatori si rendevano conto di quanto difficile e scomodo fosse stato farsi il caffè prima che l’Omino coi Baffi inventasse quella straordinaria caffettiera, praticissima e robusta, cui era stato dato il nome di Moka, dalla varietà più pregiata del caffè

Era stato il Renatino, il figlio dell’Alfonso ad avere l’idea di far disegnare l’Omino coi Baffi, una caricatura dell’inventore della caffettiera. Aveva smesso da tempo di giocare e ora la sua sfida era diffondere quell’idea. Tutta l’Italia, dalle Alpi alla Sicilia, doveva conoscerla. Compresa, ovviamente, la città in cui fare il caffè non era un piacere, ma un’arte sublime e passionale: Napoli. 

Per i vicoli dei quartieri spagnoli, dove la televisione non arrivava, poteva capitare di assistere ad uno spettacolo incredibile. Un omone grande e grosso, un altro dei figli dell’Alfonso, girava con in testa una grande Moka. I ragazzi gli si affollavano attorno, le donne spiavano dalle finestre e gli uomini convergevano verso la piazza, dove potevano assaggiare il caffè che sapeva di moderno, eppure manteneva quell’aroma antico. 

Così, con il senso pratico che li contraddistingue, anche gli abitanti della città sotto il Vesuvio adottarono la Moka. Al punto che, quando una malauguratamente si rompeva, la spedivano ad Omegna perché fosse aggiustata nella fabbrica, con un foglietto su cui stava scritto: “Si prega di non lavare la caffettiera”. Sapevano infatti che in essa il sapore del caffè migliora col tempo… 


Nel 1970 Bagnoli era una città siderurgica del colore della ruggine in cui gli operai lottavano variamente contro la dirigenza aziendale. L’ultima trovata di questa era stata togliere le macchinette del caffè per imporre una bibita moderna: la Coca Cola. 

Proibire il caffè a Napoli era come chiedere ad un pesce di fare a meno dell’acqua: si stava chiedendo l’impossibile. E siccome una cosa che non manca in quelle terre è l’ingegnosità, gli operai organizzarono la resistenza. Se non potevano avere la macchinetta, si sarebbero arrangiati da soli. 

Portare caffettiera e miscela dentro la fabbrica era impresa semplice, come trovare l’acqua. E il fornello? Ogni mattina rimaneva lo scarto delle colate del giorno prima. Materiale solido, ma ancora caldo. Bastava posarvi la Moka e il caffè era pronto in pochi minuti.

Gli operai di Bagnoli non solo si erano ripresi la pausa caffè, ma avevano difeso un principio, un’idea. Il simbolo della loro volontà di non essere ridotti a meri ingranaggi del ciclo produttivo. Di poter essere, dentro quell’inferno di fuoco e acciaio, ancora degli esseri umani.



Il racconto è stato scritto alcuni anni fa per una rivista che avrebbe dovuto avere l'aroma di caffé e si rivelò invece una ciofeca...

venerdì 15 maggio 2015

Tolkien e l'edizione pirata

D.W. Wollheim era un editore che negli USA aveva fondato la Ace Books, che pubblicava in formato popolare storie di fantascienza. Visto il successo commerciale che “Il Signore degli Anelli” aveva riscosso nel Regno Unito, nel 1964 pensò di pubblicarlo anche negli USA. A quel tempo il libro non era edito negli States, ma veniva importata l’edizione inglese. 

Secondo quanto hanno successivamente dichiarato i suoi eredi, Wollheim telefonò a Tolkien proponendo l’edizione della sua opera, ma il professore rifiutò l’offerta ritenendo che il formato fosse indegno della sua opera. A quel punto la Ace Books pubblicò comunque “Il Signore degli Anelli” senza autorizzazione dell’autore.

Il successo fu tale che moltissimi fan iniziarono a scrivere a Tolkien, il quale però pazientemente spiegava loro che l’opera era un’opera pirata e che lui non aveva ricevuto un centesimo dei diritti che gli sarebbero legalmente spettati. L’ondata di indignazione che si sollevò costrinse la Ace Books a ritirare la famigerata edizione e a risarcire (parzialmente) l’autore. 

Il fatto contribuì peraltro moltissimo alla popolarità di Tolkien oltre oceano: l’edizione autorizzata della Ballantine Books ebbe un successo commerciale inimmaginabile. Amatissimo nei campus americani della beat generation, “Il Signore degli Anelli” diventò un libro cult in tutto il mondo.


mercoledì 13 maggio 2015

Viaggio al castello, tra diavoli e fantasmi. 1 – la battaglia

Dante Alighieri davanti al castello di Poppi



Mi capita talora di dover viaggiare per lavoro. Fortunatamente nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di luoghi molto belli. Talora sono anche carichi di leggende e storie. Voglio raccontarvi dell’ultimo in cui sono stato…

Pochi giorni fa, provenendo dalle vallate tridentine e dalle calde spiagge della Trinacria, risalendo lo stivale dalla bella Puglia e scendendo dal montano Piemonte siamo calati da ogni direzione in un luogo carico di storia: Poppi, al centro del Casentino. Un luogo in cui i destini se non dell’Italia quanto meno della sua cultura furono decisi sul campo di battaglia. Era sabato quel giorno ed era l’undicesimo giorno del giugno 1289. 

La strada che ho percorso per arrivare a Poppi è la stessa su cui, il 2 giugno di quell’anno lontano, s’incamminarono le truppe guelfe di Firenze: il passo della Consuma. Una decisione pericolosa, perché la strada era impervia, che era stata suggerita dai guelfi fuggiti dalla nemica Arezzo, che bene conoscevano quella via. 

I due comandanti dei guelfi fiorentini erano Guillaume Bertrand de Durfort e Aimeric de Narbonne, due francesi e due autentici professionisti della guerra. Ricordiamoci i loro nomi e lasciamoli alla testa dell’esercito, composto da circa duemila cavalieri e diecimila fanti, mentre s’inerpicano sulle montagne.

Spostiamoci invece sull’altro fronte, dove i Ghibellini d’Arezzo furono presi di sorpresa da quella mossa e costretti a dar battaglia nel luogo scelto dagli avversari: la piana di Campaldino, proprio sotto il castello dei conti guidi a Poppi. A guidarli il Vescovo di Arezzo, Guglielmo degli Ubertini. La sua guida non era solo spirituale - possiamo immaginarci la benedizione impartita ai soldati - ma soprattutto militare. Guglielmo aveva un concetto proprio, ma molto comune all’epoca, di come si dovessero regolare le questioni. Ad esempio, per porre fine a un contrasto che si trascinava da troppo tempo col monastero di Camaldoli fece bastonare i monaci dai suoi soldati. E poiché la legge vietava agli uomini di Chiesa di spargere sangue sul campo di battaglia Guglielmo ci andava con una mazza con cui poteva spaccare teste senza versarne.

Il terreno scelto per lo scontro era favorevole ai Fiorentini, dal momento che gli Aretini, che avevano ricevuto rinforzi da parte di tutti i Ghibellini italiani, avrebbero dovuto caricare in salita. E così fecero. Buonconte da Montefeltro guidò l’attacco di 300 feditori a cavallo, preceduti da dodici “paladini”. L’effetto sui feditori guelfi fu disastroso. Quasi tutti vennero disarcionati, ma continuarono a combattere a piedi, mentre i ghibellini si incuneavano tra le file nemiche.

Tra i feditori a cavallo schierati da Firenze c’era anche un giovane di nome Dante Alighieri che anni dopo confessò di aver provato “temenza grande” in quel frangente. Fortunatamente per noi e per le sorti della letteratura sopravvisse. E come lui un altro poeta, lo scanzonato Cecco Angiolieri che pure si trovava a Campaldino tra i guelfi.

Le sorti della battaglia, fino a quel momento molto incerte, vennero decise da Corso Donati, capo della riserva di cavalleria guelfa. Uomo poco incline a rispettare le regole, senza aspettare il comando, irruppe nella battaglia di propria iniziativa, incuneandosi tra la cavalleria e la fanteria nemica.

A quel punto Guido Novello di Poppi, che comandava la riserva ghibellina, giudicando persa la giornata si ritirò nel proprio castello. La battaglia si trasformò così in una caccia, dove i fiorentini e i loro alleati cercarono di catturare quanti più prigionieri. Ne presero un migliaio, buona parte dei quali fu riscattata in moneta sonante. I più poveri, quelli per cui i parenti non erano in grado di pagare, morirono nelle carceri di Firenze. La caccia terminò solo quando un violento temporale si abbatté sulla piana di Campaldino. Secondo una tradizione spesso le battaglie più cruente erano seguite da violente tempeste.

La battaglia fu infatti molto sanguinosa per l’epoca. Sul campo caddero circa 2000 combattenti, di cui circa 1700 ghibellini. Anche i comandanti non furono risparmiati. Guillaume Bertrand de Durfort fu abbattuto da un quadrello di balestra mentre tentava di organizzare la controffensiva. Guglielmo degli Ubertini fu ucciso da un colpo di picca alla testa. Con lui cadde il suo parente Guglielmo Pazzo, che inutilmente aveva cercato di difenderlo. 

Aimeric de Narbonne fu ferito al volto, ma sopravvisse, nonostante una tradizione pretenda che il suo fantasma si aggiri ancora per la piana di Campaldino. Fu accolto con tutti gli onori e “Amerigo” divenne un nome tradizionale a Firenze. Tra i tanti che lo portarono ci fu il fiorentino Amerigo Vespucci da cui prese il nome il continente scoperto da Colombo: America.

Un mistero grande avvolse invece Buonconte da Montefeltro, che non fu trovato né tra i vivi né tra i morti e nessuno ebbe più notizia di lui. A dare una risposta fu proprio Dante Alighieri che nella battaglia era stato suo nemico e che nel suo viaggio ultraterreno lo incontrò in Purgatorio. "Forato ne la gola" e in fin di vita, una lacrimuccia gli era bastata a salvare la propria anima carica di nefasti peccati. Così il Diavolo, che contava di vincere facile, preso da un accesso d’ira s’era accanito sul suo corpo, facendolo straziare e scomparire nelle acque dell’Arno.

Ma i diavoli a Poppi pare siano di casa. Nella seconda parte vi parlerò di una malefica contessa il cui spettro sembra non trovi pace…





domenica 10 maggio 2015

Tra fantasia e realtà

Scarica liberamente A6 Fanzine 


Ho un articolo da consegnare; una relazione da terminare; mezza dozzina di mail a cui rispondere; e un racconto da scrivere entro domani mattina, ma la mezzanotte è passata e ho sonno, troppo sonno…

Quando riapro gli occhi lei è lì.

Seduta a gambe accavallate sulla mia scrivania dondola un piedino, senza nulla addosso oltre ai capelli simili a rami di tasso. Mi sorride, puntandomi contro i capezzoli come lance, questa piccola fata verde dalle ali di smeraldo.

Allungo una mano per controllare che quella meraviglia sia vera. Le basta un gesto e mi ritrovo disteso per terra. Mi atterra sul petto e a gambe tese mi punta il dito contro. Mi avverte che se provo a rifarlo la prossima volta che dovrò pisciare mi troverò a rincorrere un leprotto saltellante per tutta la stanza. 

Rimango immobile e le chiedo cosa voglia. È venuta a farmi un dono: il tempo di una lunga notte per finire ciò che devo fare. Sotto il suo sguardo divertito, mi metto al lavoro. Come un forsennato scrivo articolo, relazione, mail, finché un sonno invincibile mi piomba addosso. 

Quando mi sveglio la fatina è svanita, come il mio lavoro, che in realtà è ancora tutto da fare. Ma ho una storia in testa, fortunatamente.





Questo racconto è stato scritto per il n. 31 di A6 Fanzine, incentrato sul tema: "Essere o non essere. Tra fantasia e realtà."

La fata che compare nel racconto potrebbe essere un riferimento alla “fata verde”, la bevanda dei pittori e degli artisti “maledetti”, basata su un distillato di assenzio. Per i suoi effetti collaterali l’assenzio fu messo al bando all’inizio del secolo scorso.

Pensando agli artisti "maledetti" anche il linguaggio si è adeguato...

venerdì 8 maggio 2015

Le lingue immaginarie di Tolkien


Tolkien fin da giovane dimostrò notevoli capacità linguistiche. Da studente eccelleva in latino e greco, ma divenne presto competente anche di altre lingue, tra cui il gotico, l’anglosassone e l'antico finnico. Parallelamente coltivava il gusto per i linguaggi inventati. 

Il primo incontro, folgorante, fu con l’Animalic, un linguaggio inventato dalle sue cugine, Mary e Marjorie Incledon. 

Successivamente partecipò, sempre con la cugina Mary e altri all’invenzione di un’altra lingua ancora più complessa, chiamata Nevbosh. Più tardi creò il Naffarin. 

La costruzione della Terra di Mezzo, dei suoi popoli e della sua mitologia per certi versi furono il prodotto del desiderio di Tolkien di creare un mondo per le lingue che amava inventare.

mercoledì 6 maggio 2015

Storie di donne, di streghe e di acqua



Domenica 10 maggio si tornerà a parlare del progetto "Accendiamo la memoria". A Miasino, presso la straordinaria Villa Nigra avremo una giornata di studi di cui trovate il programma nella locandina

Darò il mio contributo con un intervento dedicato alle prime donne di cui si abbia notizia a Miasino (siamo nel II secolo prima di Cristo) per continuare poi parlando di antichi rituali e delle temibili streghe di Pisogno.

Temibili quanto meno secondo l'inquisitore che diede loro la caccia, poco meno di cinquecento anni fa...

domenica 3 maggio 2015

Scarafaggi

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L’avevo detto a Paul.

Non entrare nel vecchio edificio in Beaconsfield Road. È chiuso da tempo ed è tutto fatiscente. Trovi solo scarafaggi e muri scrostati dove un tempo dormivano i bambini tristi. Non solo. Bisogna avere piedi leggeri da danzatore per muoversi su quei pavimenti marci, perché basta un passo falso per fare un salto nel vuoto, in quel luogo di ombre e di fantasmi, dentro i campi di fragole.

Ma lui non ha voluto ascoltarmi. Voleva incontrare Michelle là dentro, perché lei lo amava. Lo aveva detto a me, quel giorno, proprio sulla giostra dietro la tettoia, in Penny Lane.

“Non mi lasciare!” le avevo risposto io, ma lei lo amava.

Così gli ho detto: “Attento!”

C’è confusione! c’è confusione! 

L’avevo detto a Paul...

Solo non riesco a ricordare cosa. Gli ho detto di non entrare o che lei lo aspettava proprio là dentro? Perché lei lo amava. Me lo chiedo, ancora, ma c’è confusione. Nella mia testa è come se suonasse l’intera banda dei cuori solitari del Sergente Pepper.

Michelle, mia bella... Ero così felice quando ballavi con me...

Sarai anche un amante, ma tu non sei un ballerino, Paul!

Sta scendendo velocemente... 

Sì, sta scendendo!

Lascia che sia...





Il racconto è stato scritto per il n. 30 di A6 Fanzine, dedicato ai Beatles.

Quello che avete letto è probabilmente il delirio di un pazzo. Un pazzo pericoloso però, che nella sua passione per Michelle concepisce un piano omicida nei confronti di Paul, il ragazzo per il quale Michelle l’ha lasciato. Il tutto seguendo i testi dei Beatles, che potete divertirvi a identificare.



venerdì 1 maggio 2015

Tolkien l'orfano

Foto cartolina della famiglia Tolkien in Africa


Il padre, Arthur Reuel Tolkien, morì in Africa quando lui aveva quattro anni. La madre, Mabel, che gli aveva insegnato l’amore per le lingue antiche, le fiabe e le leggende, morì nel 1904. 

A 12 anni J.R.R. Tolkien e il fratello Hilary Arthur Reuel, erano già orfani di entrambi i genitori. Furono cresciuti da un sacerdote cattolico degli oratoriani, Francis Xavier Morgan, che consentì al dotato J.R.R. di proseguire gli studi.

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"Di un fatto del genere fui testimone oculare io stesso".

Ludovico Maria Sinistrari di Ameno.