Dante Alighieri davanti al castello di Poppi |
Mi capita talora di dover viaggiare per lavoro. Fortunatamente nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di luoghi molto belli. Talora sono anche carichi di leggende e storie. Voglio raccontarvi dell’ultimo in cui sono stato…
Pochi giorni fa, provenendo dalle vallate tridentine e dalle calde spiagge della Trinacria, risalendo lo stivale dalla bella Puglia e scendendo dal montano Piemonte siamo calati da ogni direzione in un luogo carico di storia: Poppi, al centro del Casentino. Un luogo in cui i destini se non dell’Italia quanto meno della sua cultura furono decisi sul campo di battaglia. Era sabato quel giorno ed era l’undicesimo giorno del giugno 1289.
La strada che ho percorso per arrivare a Poppi è la stessa su cui, il 2 giugno di quell’anno lontano, s’incamminarono le truppe guelfe di Firenze: il passo della Consuma. Una decisione pericolosa, perché la strada era impervia, che era stata suggerita dai guelfi fuggiti dalla nemica Arezzo, che bene conoscevano quella via.
I due comandanti dei guelfi fiorentini erano Guillaume Bertrand de Durfort e Aimeric de Narbonne, due francesi e due autentici professionisti della guerra. Ricordiamoci i loro nomi e lasciamoli alla testa dell’esercito, composto da circa duemila cavalieri e diecimila fanti, mentre s’inerpicano sulle montagne.
Spostiamoci invece sull’altro fronte, dove i Ghibellini d’Arezzo furono presi di sorpresa da quella mossa e costretti a dar battaglia nel luogo scelto dagli avversari: la piana di Campaldino, proprio sotto il castello dei conti guidi a Poppi. A guidarli il Vescovo di Arezzo, Guglielmo degli Ubertini. La sua guida non era solo spirituale - possiamo immaginarci la benedizione impartita ai soldati - ma soprattutto militare. Guglielmo aveva un concetto proprio, ma molto comune all’epoca, di come si dovessero regolare le questioni. Ad esempio, per porre fine a un contrasto che si trascinava da troppo tempo col monastero di Camaldoli fece bastonare i monaci dai suoi soldati. E poiché la legge vietava agli uomini di Chiesa di spargere sangue sul campo di battaglia Guglielmo ci andava con una mazza con cui poteva spaccare teste senza versarne.
Il terreno scelto per lo scontro era favorevole ai Fiorentini, dal momento che gli Aretini, che avevano ricevuto rinforzi da parte di tutti i Ghibellini italiani, avrebbero dovuto caricare in salita. E così fecero. Buonconte da Montefeltro guidò l’attacco di 300 feditori a cavallo, preceduti da dodici “paladini”. L’effetto sui feditori guelfi fu disastroso. Quasi tutti vennero disarcionati, ma continuarono a combattere a piedi, mentre i ghibellini si incuneavano tra le file nemiche.
Tra i feditori a cavallo schierati da Firenze c’era anche un giovane di nome Dante Alighieri che anni dopo confessò di aver provato “temenza grande” in quel frangente. Fortunatamente per noi e per le sorti della letteratura sopravvisse. E come lui un altro poeta, lo scanzonato Cecco Angiolieri che pure si trovava a Campaldino tra i guelfi.
Le sorti della battaglia, fino a quel momento molto incerte, vennero decise da Corso Donati, capo della riserva di cavalleria guelfa. Uomo poco incline a rispettare le regole, senza aspettare il comando, irruppe nella battaglia di propria iniziativa, incuneandosi tra la cavalleria e la fanteria nemica.
A quel punto Guido Novello di Poppi, che comandava la riserva ghibellina, giudicando persa la giornata si ritirò nel proprio castello. La battaglia si trasformò così in una caccia, dove i fiorentini e i loro alleati cercarono di catturare quanti più prigionieri. Ne presero un migliaio, buona parte dei quali fu riscattata in moneta sonante. I più poveri, quelli per cui i parenti non erano in grado di pagare, morirono nelle carceri di Firenze. La caccia terminò solo quando un violento temporale si abbatté sulla piana di Campaldino. Secondo una tradizione spesso le battaglie più cruente erano seguite da violente tempeste.
La battaglia fu infatti molto sanguinosa per l’epoca. Sul campo caddero circa 2000 combattenti, di cui circa 1700 ghibellini. Anche i comandanti non furono risparmiati. Guillaume Bertrand de Durfort fu abbattuto da un quadrello di balestra mentre tentava di organizzare la controffensiva. Guglielmo degli Ubertini fu ucciso da un colpo di picca alla testa. Con lui cadde il suo parente Guglielmo Pazzo, che inutilmente aveva cercato di difenderlo.
Aimeric de Narbonne fu ferito al volto, ma sopravvisse, nonostante una tradizione pretenda che il suo fantasma si aggiri ancora per la piana di Campaldino. Fu accolto con tutti gli onori e “Amerigo” divenne un nome tradizionale a Firenze. Tra i tanti che lo portarono ci fu il fiorentino Amerigo Vespucci da cui prese il nome il continente scoperto da Colombo: America.
Un mistero grande avvolse invece Buonconte da Montefeltro, che non fu trovato né tra i vivi né tra i morti e nessuno ebbe più notizia di lui. A dare una risposta fu proprio Dante Alighieri che nella battaglia era stato suo nemico e che nel suo viaggio ultraterreno lo incontrò in Purgatorio. "Forato ne la gola" e in fin di vita, una lacrimuccia gli era bastata a salvare la propria anima carica di nefasti peccati. Così il Diavolo, che contava di vincere facile, preso da un accesso d’ira s’era accanito sul suo corpo, facendolo straziare e scomparire nelle acque dell’Arno.
Ma i diavoli a Poppi pare siano di casa. Nella seconda parte vi parlerò di una malefica contessa il cui spettro sembra non trovi pace…
Come sempre mi inchino alla tua cultura. Rimarrei ore a leggerti. Ci hai portato direttamente dentro alla battaglia, come raramente accade.
RispondiEliminaL'evento fu di quelli che ebbero importanti conseguenze. Basti pensare a Dante! ;)
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