Il treno è fermo su binari d’acciaio che s’arroventano al sole, in una giornata estiva che sembrerebbe simile a molte altre, se non mi trovassi nella surreale trappola di un mezzo costruito per viaggiare, inchiodato invece da otto ore e quarantasette minuti nello stesso punto.
Attorno a noi si estende un’afosa pianura. Qui un tempo c’erano foreste e campi coltivati. Ora è un’estensione di capannoni su cui la scritta “vendesi” si alterna agli “affittasi”. Da queste parti anche l’industria si è fermata; o forse se n’è andata lontano abbandonandoci ai nostri guai.
La stessa cosa è accaduta alla climatizzazione di questo treno, che si è spenta all’improvviso lasciandoci intrappolati in questo guscio surriscaldato. Non si possono aprire i finestrini né le porte e tanto meno è possibile scendere dal treno. Abbiamo chiesto al controllore cosa stesse succedendo, ma dopo aver borbottato che stava andando a vedere è stato inghiottito dal nulla e non l’abbiamo più rivisto.
Poiché i cellulari sono muti e la connessione ad internet è un miraggio più intenso di quelli che s’intravedono sotto il sole all’orizzonte circolano varie ipotesi sulle cause della nostra situazione: l’incompetenza del macchinista; un guasto meccanico o elettrico; la caduta della linea elettrica; un black out generalizzato dovuto all’accensione di troppi condizionatori. Qualcuno, ma si è trattato di una voce isolata, ha parlato di un’epidemia a bordo.
Curiosamente le vite dei passeggeri che sarebbero corse parallele hanno cominciato ad intrecciarsi da quando il treno si è fermato. Ho notato che ciascuno reagisce a suo modo alla situazione. Una signora racconta le urgenze che l’hanno spinta a partire, come se fossero motivo sufficiente per far ripartire il treno. Un ragazzo ha trovato l’occasione per provarci con una bella ragazza e lei, forse solo per vincere la noia, gli ha dato corda trasformandolo nel suo ventilatore personale. Un uomo coi baffi dice che è colpa del Governo che non ha fatto le riforme. Un uomo senza baffi ribatte che è colpa dell’opposizione che non ha consentito al Governo di farle. Una donna si rifugia nella lettura. Un signore davanti a me dorme. Tutti sbuffano. Io scrivo.
Non so dire perché mi succeda, ma quando il mondo attorno a me diventa grigio, piatto, immobile io sento la necessità di farlo. Non perché desideri far leggere a qualcuno ciò che scrivo. So però che devo. E che in qualche modo morirei se non lo facessi. Per questo accendo il computer e inizio a battere sulla tastiera. Oppure, come in questo caso, estraggo un taccuino e con una biro traccio freneticamente dei segni, che correggo e ricorreggo, fino a che la storia che mi è venuta a trovare comincia a prendere forma. Non è esattamente ciò che vorrei esprimere, ma questo è l’unico modo che conosco per fissare sulla carta un pallido fantasma della bellezza che ho intuito.
Era passato da poco l’otto settembre e rientravo con un amico dall’Istria su un treno carico di ex militari senza divisa. Rimasti senza ufficiali e senza ordini avevamo deciso che la guerra per noi era finita ed era ora di tornare a casa. A Verona però trovammo una sorpresa. La stazione era piena di tedeschi, con mitragliatrici ovunque. Il treno fu fermato e salirono a bordo. Sul binario accanto al nostro c’era una fila di carri bestiame. Man mano che trovavano i ragazzi in età di leva li buttavano giù dal nostro e li caricavano sull’altro treno. Chi tentava di scappare era falciato dalle raffiche delle guardie. Gli altri urlavano disperati e gettavano biglietti dalle finestrelle supplicando i passanti di avvisare le famiglie.
Noi due restavamo a guardarci senza alcuna idea di cosa fare. Nello scompartimento con noi c’era solo un uomo più vecchio, che leggeva il giornale e ogni tanto ci guardava.
«Datemi le vostre carte di identità» disse improvvisamente.
Eravamo così spaventati che obbedimmo come automi, senza nemmeno capire perché. Allora l’uomo prese di tasca un pennino. Trasse dalla valigetta delle boccette d’inchiostro e fece delle prove su un foglio di carta. Quando fu soddisfatto, prese i documenti e ci lavorò sopra col pennino. Infine ce li restituì. Notammo che aveva modificato perfettamente la data di nascita in modo da farci risultare troppo giovani per essere nelle classi di leva.
I tedeschi arrivarono e chiesero i documenti, videro la data di nascita, ci guardarono, ce li restituirono e andarono oltre. Per loro un documento ufficiale era un testo sacro. Impensabile discuterlo.
Io non ho idea di chi fosse quell’uomo. Un impiegato dell’anagrafe? O un falsario? Non l’ho mai più rivisto, perché appena possibile scendemmo dal treno e raggiungemmo Milano a piedi.
«Ecco, questo è successo veramente.»
«Prego?» domando al signore che mi sta di fronte.
Mi rendo conto che devo essermi appisolato.
«Mi scusi» risponde con un sorriso. «Alle volte mi capita di parlare da solo».
Mi chiedo quanti anni possa avere. Un’ottantina o forse più, ma ben portati. Poi mi trovo a pensare che persone come lui, quando avevano la metà dei miei anni, compirono imprese che faccio fatica anche solo ad immaginare. Bastava una cartolina per metterti su un treno diretto verso luoghi i cui nomi ora compaiono nei libri di storia. E dopo quello spaventoso tritacarne per loro venne il momento della scelta. Che fossero sfuggiti ai treni piombati verso la Germania o che si trovassero dentro campi cintati di ferro, ciascuno di loro dovette prima o dopo schierarsi, da una parte o dall’altra.
E penso anche alla generazione dei loro nonni che, inseguendo il sogno di un’Italia unita, leggeva e scriveva mentre andava a morire al fronte su treni a vapore. E quando il carbone finiva, i passeggeri scendevano dal treno, si rimboccavano le maniche e raccoglievano le canne del granoturco per alimentare la caldaia.
Pensando a loro, mentre il treno persiste nella sua immobilità, rileggo un’ultima volta i miei fogli pieni di belle parole ornate, prima di strapparli in mille pezzi e cominciare a scrivere.
Attorno a noi si estende un’afosa pianura. Qui un tempo c’erano foreste e campi coltivati. Ora è un’estensione di capannoni su cui la scritta “vendesi” si alterna agli “affittasi”. Da queste parti anche l’industria si è fermata; o forse se n’è andata lontano abbandonandoci ai nostri guai.
La stessa cosa è accaduta alla climatizzazione di questo treno, che si è spenta all’improvviso lasciandoci intrappolati in questo guscio surriscaldato. Non si possono aprire i finestrini né le porte e tanto meno è possibile scendere dal treno. Abbiamo chiesto al controllore cosa stesse succedendo, ma dopo aver borbottato che stava andando a vedere è stato inghiottito dal nulla e non l’abbiamo più rivisto.
Poiché i cellulari sono muti e la connessione ad internet è un miraggio più intenso di quelli che s’intravedono sotto il sole all’orizzonte circolano varie ipotesi sulle cause della nostra situazione: l’incompetenza del macchinista; un guasto meccanico o elettrico; la caduta della linea elettrica; un black out generalizzato dovuto all’accensione di troppi condizionatori. Qualcuno, ma si è trattato di una voce isolata, ha parlato di un’epidemia a bordo.
Curiosamente le vite dei passeggeri che sarebbero corse parallele hanno cominciato ad intrecciarsi da quando il treno si è fermato. Ho notato che ciascuno reagisce a suo modo alla situazione. Una signora racconta le urgenze che l’hanno spinta a partire, come se fossero motivo sufficiente per far ripartire il treno. Un ragazzo ha trovato l’occasione per provarci con una bella ragazza e lei, forse solo per vincere la noia, gli ha dato corda trasformandolo nel suo ventilatore personale. Un uomo coi baffi dice che è colpa del Governo che non ha fatto le riforme. Un uomo senza baffi ribatte che è colpa dell’opposizione che non ha consentito al Governo di farle. Una donna si rifugia nella lettura. Un signore davanti a me dorme. Tutti sbuffano. Io scrivo.
Non so dire perché mi succeda, ma quando il mondo attorno a me diventa grigio, piatto, immobile io sento la necessità di farlo. Non perché desideri far leggere a qualcuno ciò che scrivo. So però che devo. E che in qualche modo morirei se non lo facessi. Per questo accendo il computer e inizio a battere sulla tastiera. Oppure, come in questo caso, estraggo un taccuino e con una biro traccio freneticamente dei segni, che correggo e ricorreggo, fino a che la storia che mi è venuta a trovare comincia a prendere forma. Non è esattamente ciò che vorrei esprimere, ma questo è l’unico modo che conosco per fissare sulla carta un pallido fantasma della bellezza che ho intuito.
Era passato da poco l’otto settembre e rientravo con un amico dall’Istria su un treno carico di ex militari senza divisa. Rimasti senza ufficiali e senza ordini avevamo deciso che la guerra per noi era finita ed era ora di tornare a casa. A Verona però trovammo una sorpresa. La stazione era piena di tedeschi, con mitragliatrici ovunque. Il treno fu fermato e salirono a bordo. Sul binario accanto al nostro c’era una fila di carri bestiame. Man mano che trovavano i ragazzi in età di leva li buttavano giù dal nostro e li caricavano sull’altro treno. Chi tentava di scappare era falciato dalle raffiche delle guardie. Gli altri urlavano disperati e gettavano biglietti dalle finestrelle supplicando i passanti di avvisare le famiglie.
Noi due restavamo a guardarci senza alcuna idea di cosa fare. Nello scompartimento con noi c’era solo un uomo più vecchio, che leggeva il giornale e ogni tanto ci guardava.
«Datemi le vostre carte di identità» disse improvvisamente.
Eravamo così spaventati che obbedimmo come automi, senza nemmeno capire perché. Allora l’uomo prese di tasca un pennino. Trasse dalla valigetta delle boccette d’inchiostro e fece delle prove su un foglio di carta. Quando fu soddisfatto, prese i documenti e ci lavorò sopra col pennino. Infine ce li restituì. Notammo che aveva modificato perfettamente la data di nascita in modo da farci risultare troppo giovani per essere nelle classi di leva.
I tedeschi arrivarono e chiesero i documenti, videro la data di nascita, ci guardarono, ce li restituirono e andarono oltre. Per loro un documento ufficiale era un testo sacro. Impensabile discuterlo.
Io non ho idea di chi fosse quell’uomo. Un impiegato dell’anagrafe? O un falsario? Non l’ho mai più rivisto, perché appena possibile scendemmo dal treno e raggiungemmo Milano a piedi.
«Ecco, questo è successo veramente.»
«Prego?» domando al signore che mi sta di fronte.
Mi rendo conto che devo essermi appisolato.
«Mi scusi» risponde con un sorriso. «Alle volte mi capita di parlare da solo».
Mi chiedo quanti anni possa avere. Un’ottantina o forse più, ma ben portati. Poi mi trovo a pensare che persone come lui, quando avevano la metà dei miei anni, compirono imprese che faccio fatica anche solo ad immaginare. Bastava una cartolina per metterti su un treno diretto verso luoghi i cui nomi ora compaiono nei libri di storia. E dopo quello spaventoso tritacarne per loro venne il momento della scelta. Che fossero sfuggiti ai treni piombati verso la Germania o che si trovassero dentro campi cintati di ferro, ciascuno di loro dovette prima o dopo schierarsi, da una parte o dall’altra.
E penso anche alla generazione dei loro nonni che, inseguendo il sogno di un’Italia unita, leggeva e scriveva mentre andava a morire al fronte su treni a vapore. E quando il carbone finiva, i passeggeri scendevano dal treno, si rimboccavano le maniche e raccoglievano le canne del granoturco per alimentare la caldaia.
Pensando a loro, mentre il treno persiste nella sua immobilità, rileggo un’ultima volta i miei fogli pieni di belle parole ornate, prima di strapparli in mille pezzi e cominciare a scrivere.
Una storia diversa, stavolta.
Nota: questo racconto era stato scritto per una rivista letteraria con cui per un certo tempo ho collaborato. Poi vi sono state divergenze sulla destinazione che il treno doveva raggiungere e il racconto è sceso dal convoglio. Ve lo propongo qui, essendo sempre attuale.
www.illagodeimisteri.it
www.illagodeimisteri.it
In un breve racconto sei riuscito a concentrare tanti argomenti.
RispondiEliminaMolto interessante.
E al ricordo delle generazioni passate mi viene da chiedermi a quello che faranno le generazioni future.
attualissimo...
RispondiEliminaL'ho sempre trovato un bellissimo racconto
RispondiEliminaUn racconto di struggente e sraordinaria bellezza. Quell'uomo avrebbe potuto anche essere mio padre, che comunque ha fatto la seconda guerra mondiale. E vi si nota pure la vena di un ottimo scrittore.
RispondiElimina@ Ele: certamente nuove sfide attendono noi e le generazioni che verrano.
RispondiElimina@ Giardigno: purtroppo si
@ Tenar: grazie!
@ marshall: quella generazione ha vissuto vicende davvero straordinarie. Talora molto tragiche purtroppo.