sabato 21 dicembre 2013

Impronte di drago sul lungolago di Arona



Sono comparse alcune impronte misteriose sulle spiaggette di Corso Europa, ad Arona, sul Lago Maggiore. A notarle sono stati alcuni passanti, attirati dall'abbaiare dei cani attorno alle pozzanghere di forma assai insolita.

Le impronte sembrano appartenere ad animali di grandi dimensioni, bipedi, con zampe a tre dita e dotate di lunghi artigli. Le tracce escono e rientrano dall'acqua e il tratto percorso a terra misura una dozzina di metri.

Tra gli esperti convenuti sul posto a studiare il fenomeno c'era anche la scrittrice e collezionista di leggende locali Francesca D'Amato. 
"Misure, forma dei polpastrelli, profondità degli artigli e disposizione delle dita sembrano confermare che si tratti di impronte di drago. I draghi italiani camminano su due zampe, non quattro come si vede nei film. Gli stemmi araldici medievali li rappresentano esattamente come li descrivo nel mio romanzo (Draghi randagi, Compagnia della Rocca Edizioni ndr), appena pubblicato."

Per ora non si sono registrati danni da parte dei draghi e D'Amato rassicura: "Se non ce ne sono stati fino a oggi è perché la dieta dei draghi italiani è fatta soprattutto di pesce e sono creature schive, vista la caccia che hanno subito nei secoli. Piuttosto è strano che siano in giro con questo freddo, dovrebbero essere in letargo in questa stagione. Forse qualcosa li ha disturbati."

Chiunque dovesse notare nuove impronte o tracce di drago, fuori dalle librerie, è pregato di segnalarlo al sito www.gnomi.org, dove è possibile consultare la mappa delle leggende italiane relative ai draghi e scoprire di cosa parla il romanzo "Draghi randagi - la grande fuga tra le Alpi".

mercoledì 18 dicembre 2013

Morto e mangiato

Il pallido scrittore di storie a tinte forti ha colpito ancora. Dopo aver coinvolto 365 scrittori per scrivere 365 storie cattive ha pensato ora di svegliare dal sonno eterno un manipolo di affamati morti viventi.

Per farlo, visto che gli zombie sono davvero affamati, si è avvalso della collaborazione di Chiara Poli, che “ha conosciuto Paolo Franchini qualche anno fa grazie a Blogger al forno, il progetto di cucina di Whirlpool che coinvolgeva 5 blogger italiani. La Poli è impazzita e si è trasformata in una cuoca provetta, posseduta dallo spirito di Suor Germana. Franchini ha cucinato delle pietanze molto noir, ma anche molto umoristiche, cercando a più riprese di esorcizzare la Poli, finora senza risultati soddisfacenti.”

Insieme a loro cento autori, che hanno prestato la loro penna virtuale per  scrivere cento storie che vedono protagonisti gli zombie. Perché proprio loro?

“Lo sfacelo dell’economia mondiale costringe gli esseri umani a tornare a pensare all’essenziale. Ovvero: cibo, un riparo per la propria famiglia e ciò che serve per tenerla al sicuro. Il segreto del successo degli zombie è tutto qui. Ci fanno affrontare la paura più grande, ci costringono a riflettere sull’unico appuntamento al quale nessuno di noi, prima o poi, potrà mancare e ci spingono a chiederci: come vogliamo viverlo il tempo che abbiamo a disposizione prima di quel momento? La vita è preziosa. Vivere intensamente, dando valore a ogni singolo giorno, è quanto di meglio possiamo fare. E quanto di più difficile.”

Il risultato è l’antologia “Morto e mangiato – Storie di zombie di AA. VV.”, disponibile in ebook presso i migliori store on line al prezzo di €.4,99 e in formato cartaceo ordinabile tramite il sito www.mortoemangiato.tk al prezzo di €.15,00.

Come per le storie cattive, anche in questo caso la finalità è buona: aiutare coi proventi dei libri A.I.S.EA Onlus e AST Onlus, due associazioni senza fini di lucro a supporto delle persone affette da due malattie rare, la Sindrome di Emiplegia Alternante e la Sclerosi Tuberosa, e delle loro famiglie.

Sul sito www.mortoemangiato.tk potete trovare ulteriori informazioni.

Dimenticavo di dire che tra gli autori ci sono anch’io, ma questa è senz’altro la cosa meno importante.

mercoledì 11 dicembre 2013

Alpinisti ciabattoni

Un treno procede in direzione nord, dopo una breve sosta alla stazione di Caltignaga. Così breve che un povero vecchietto non ha nemmeno il tempo di scendere per un’urgenza che dovrà aspettare, prima di essere soddisfatta, l’arrivo nella stazione di Gozzano. Perché a quel tempo, negli anni Ottanta dell’Ottocento, il treno fermava la sua corsa nel paese a sud del lago d’Orta. Da qui, in carrozza, si poteva raggiungere l’imbarco di Buccione e col battello arrivare a Orta.
Nel capoluogo cusiano sbarcano con gli altri anche due strani viaggiatori che avevamo avuto modo di incontrare sul treno, nello stesso scompartimento del vecchietto.

“Entrambi vestiti della festa, lui con una giacca nuova che gli rampicava su su nelle spalle, un colletto di camicia fresco di stiratura, ma di certo molto incomodo.”
Lei “era in gran montura, ma non si trovava a suo agio nella costrettura del busto, che non era solita a portare. Vestiva un bell'abito di seta marrone, ricca, croja, incartita, e sopra una spolverina di lana chiara copiata per la circostanza sul più recente figurino. Una grossa catena d'oro le cascava pesante dal corsetto fin sulla pancia. Orologio d'oro in vista, braccialetto, e orecchini di brillanti che stonavano coi fulgori di stella sulla pelle gialliccia e passura delle guance flosce.
Cappello a tese larghe, alto conico, e sopra fiori, grappoli, piumetti, tutto annuvolato in un velo di tulle; una montagna piena di sporgenze che urtavano da ogni parte, tenendola in un disagio che dava malinconia.
— Leva quela cavagna che te ghet in testa — le disse il marito…
Madama non rispose, e si sventagliò la faccia puntando al soffitto con dignitoso risentimento il suo naso tagliato a scarpa.”

I loro nomi? Gaudenzio Gibella e Martina Gibella sua moglie.

“I coniugi Gibella venivano dalle risaje della Lomellina; sfiaccolati dall'afa palustre, correvano a chiedere un po' di refrigerio alle fresche aure della riviera di Orta.
Avevano un bel negozio di drogheria in Sanazzaro, e dopo tanti anni di assiduità bottegaja, ora che gli affari erano assodati, ora che il loro primogenito Leopoldo aveva senno bastante per curare il negozio e la casa, ecco che i Gibella si erano messi in viaggio realizzando finalmente un vecchio progetto architettato ad ogni chiusura annuale dei conti, e rimandato da una stagione all'altra, per una ventina d'anni.”

I due coniugi si cimenteranno anche in un’ardita salita sui monti alla ricerca di latte fresco, ma con esiti disastrosi. Esito assolutamente prevedibile trattandosi di due “Alpinisti ciabattoni”!

Proprio questo è il titolo di un divertente romanzo, pubblicato nel 1888 da un altro Scapigliato che conosceva bene il lago d’Orta, Achille Giovanni Cagna, nato a Vercelli nel 1847 e morto nella stessa città nel 1931.
I suoi inizi non furono dei più brillanti. Iscritto all'Istituto professionale Cavour fu cacciato dal secondo corso in quanto "disutile", inetto e incapace a dedicarsi agli studi. Cominciò quindi a lavorare col padre che era stipettaio e presidente della Società operaia di Vercelli, ma per sbarcare il lunario dovette fare vari lavori modesti, coltivando parallelamente da autodidatta la passione della lettura e della scrittura.
Un aiuto gli venne dagli amici, come Giuseppe Cesare Abba, Edmondo De Amicis e Giovanni Faldella, il maggior esponente della Scapigliatura piemontese.
Il successo delle sue opere lo spinse a cercare una personale rivincita. In base alla Legge Casati del 1859, che disciplinava l’insegnamento scolastico, era possibile ottenere la nomina a professore nelle scuole professionali anche senza titolo di studio, ma solo grazie alle opere pubblicate. Cagna chiese così l'abilitazione all'insegnamento di lingua e letteratura italiana. Il Consiglio superiore, però, riconobbe bensì nelle sue opere "ingegno istintivo e cultura e abilità descrittiva", ma rigettò la domanda, dal momento che “si trattava solo di letteratura amena”. 
Lo scrittore scrisse allora “Marcia di una gente”, pubblicato nel 1889, un compendio di storia greca grazie al quale gli fu concessa l'abilitazione provvisoria per tre anni. Rientrò così, e per la porta principale, in quello stesso istituto Cavour dalla cui finestra era stato cacciato. Vi insegnò tre anni, gratuitamente, come supplente di letteratura, ottenendo infine l'abilitazione definitiva.
Toltasi quella soddisfazione lasciò la scuola e tornò ad occuparsi di un’azienda agricola di famiglia, dedicandosi contemporaneamente alle lettere e alla politica. Divenuto consigliere comunale e membro della commissione scolastica, apprezzato conferenziere e giornalista il monello "disutile" di un tempo era infine riuscito a diventare un “autodidatta laureato”.

 Se volete leggere il testo seguite questo link.

mercoledì 4 dicembre 2013

Il corvo di Orta

Ernesto Ragazzoni fu il più grande poeta ortese, anche per la sua capacità di interpretare quello spirito insieme romantico e ironico che gli abitanti di questo piccolo borgo cusiano hanno sempre avuto. Ho già fatto cenno ad alcune sue produzioni eccentriche, ma vale la pena ora di ritornare sui nostri passi e guardare di nuovo a questo personaggio, morto di cirrosi epatica tre giorni prima di compiere cinquant’anni, il 5 gennaio 1920.

Non aggiungo altro alla sua biografia, dal momento che una volta egli disse a un amico: 

«Quando non ci sarò più [...] se qualche amico di buona volontà vorrà raccogliere le mie poesie e i miei scritti, non potrò certo oppormici. Ma, te ne prego, se qualcuno farà la prefazione, bada che non mi prenda troppo sul serio. Non vorrei, per esempio, una biografia che dicesse solennemente: "E. R. nacque ai tanti del mese dell'anno tale, e morì... come se si trattasse di un uomo celebre qualunque. E se aggiungesse poi che studiai all'Istituto tecnico di Novara e che ebbi il diploma di ragioniere? Penso quanto sarebbe buffo di far sapere al mondo che quel mattacchione di Ragazzoni era ragioniere!»

Chi volesse approfondire la sua figura può peraltro trovare online un interessante saggio di Cesare Bermani, che di Ragazzoni è un esperto. 

Oltre che poeta, Ragazzoni fu un appassionato di occultismo e teorie teosofiche. Si racconta che durante un soggiorno in Inghilterra abbia assistito, nascosto in un bosco, a un rituale magico eseguito da una setta. Si trattava forse della “Golden Dawn” che ebbe molta influenza, non sempre positiva, su vari movimenti filosofici, politici e culturali del Novecento e di cui uno dei principali componenti fu il famigerato occultista Aleister Crowley.

Il fascino per le atmosfere misteriose non si esaurì, per nostra fortuna, in queste avventure notturne. Ragazzoni rimase affascinato da un poema che era stato introdotto in Europa nel 1859 dal “poeta maledetto” francese Charles Baudelaire.
Il testo era stato pubblicato nel febbraio 1845 sull’American Review a firma di un certo “Quarles”. Per qualche tempo l’autore di questo componimento rimase ignoto, finché, in un suntuoso appartamento di Waverley Place, di proprietà di miss Anna C. Lynch, un’autrice famosa che amava raccogliere intorno a sé il meglio della società letteraria di New York, un giovane scrittore fu invitato a recitare proprio quei versi ormai famosi, che avrebbero catapultato l’autore nell’Olimpo dei grandi della poesia anglosassone, accanto a Milton, Shelley e Keats.
Un silenzio elettrizzato afferrò i presenti, mentre ascoltavano rapiti la sua voce recitare 

Once upon a midnight dreary, while I pondered weak and weary…” 

Così cantò Edgar Allan Poe, apprezzato scrittore di racconti polizieschi e del terrore, e ognuno in quella sala comprese che solo lui poteva essere l’autore di “The Raven”. 
Dieci anni dopo la prematura morte di Poe, avvenuta in circostanze misteriose e mai chiarite, Baudelaire tradusse “The Raven” in francese facendolo conoscere nel vecchio continente. Ragazzoni s’innamorò di quel poema e scrisse una delle migliori traduzioni italiane, che diede alle stampe assieme ad altre sempre da Poe, nel 1896.

Non so dire dove sia nata l'idea di tradurre quei versi. Concedetemi di pensare che durante un ritorno invernale al suo “hortus conclusus”, osservando un corvo sui tetti di pietra del piccolo borgo di Orta, il poeta Ernesto Ragazzoni abbia deciso di mettere mano alla penna per scrivere: 

Una volta, a mezzanotte, mentre stanco e affaticato
meditavo sovra un raro, strano codice obliato,
e la testa grave e assorta — non reggevami piú su,
fui destato all’improvviso da un romore alla mia porta.
«Un viatore, un pellegrino, bussa — dissi — alla mia porta,
                          solo questo e nulla più!»

Oh, ricordo, era il dicembre e il riflesso sonnolento
dei tizzoni in agonia ricamava il pavimento.
Triste avevo invan l’aurora — chiesto e invano una virtù
a’ miei libri, per scordare la perduta mia Lenora,
la raggiante, santa vergine che in ciel chiamano Lenora
                          e qui nome or non ha più!

E il severo, vago, morbido, ondeggiare dei velluti
mi riempiva, penetrava di terrori sconosciuti!
tanto infine che, a far corta — quell’angoscia, m’alzai su
mormorando: «È un pellegrino che ha battuto alla mia porta,
un viatore o un pellegrino che ha battuto alla mia porta,
                          questo, e nulla, nulla più!».

Calmo allor, cacciate alfine quelle immagini confuse,
mossi un passo, e: «Signor — dissi — o signora, mille scuse!
ma vi giuro, tanto assorta — m’era l’anima e quassù
tanto piano, tanto lieve voi bussaste alla mia porta,
ch’io non sono ancor ben certo d’esser desto». Aprii la porta:
                          un gran buio, e nulla più!

Impietrito in quella tenebra, dubitoso, tutta un’ora
stetti, fosco, immerso in sogni che mortal non sognò ancora!
ma la notte non dié un segno — il silenzio pur non fu
rotto, e solo, solo un nome s’udì gemere: «Lenora!»
Io lo dissi, ed a sua volta rimandò l’eco: «Lenora!»
                          Solo questo e nulla più!

E rientrai! ma come pallido, triste in cor fino alla morte
esitavo, un nuovo strepito mi riscosse, e or fu sì forte
che davver, pensai, davvero — qualche arcano avvien quaggiù,
qualche arcan che mi conviene penetrar, qualche mistero!
Lasciam l’anima calmarsi, poi scrutiam questo mistero!
                          Sarà il vento e nulla più!

Qui dischiusi i vetri e torvo, — con gran strepito di penne,
grave, altero, irruppe un corvo — dell’età la più solenne:
ei non fece inchin di sorta — non fe’ cenno alcun, ma giù,
come un lord od una lady si diresse alla mia porta,
ad un busto di Minerva, proprio sopra alla mia porta,
                          scese, stette e nulla più.


mercoledì 27 novembre 2013

Scapigliati maestri

Tutto cominciò quando un pittore nemmeno ventunenne giunse nel borgo di Sulzena, con la  necessità di cercare ospitalità per la notte. La troverà nella casa del curato, ma verrà coinvolto in una serie di vicende dai contorni torbidi che hanno come teatro la valle dello Strona, sopra Omegna, sul lago d’Orta.
La storia che ho sopra accennata, contenuta ne “Le memorie del presbiterio” si deve alla mente di Emilio Praga e alla penna di Roberto Sacchetti che la portò a termine, completando il lavoro lasciato a metà dall’amico, distrutto dall’alcol, dalla droga e dalla vita sregolata a soli trentasei anni nel 1875.
L’autodistruzione di questo giovane scrittore va inquadrata, oltre che nelle vicende biografiche, nel contesto del movimento artistico a cui aderiva.

«In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui d'ambo i sessi v'è chi direbbe una certa razza di gente - fra i venti e i trentacinque anni non più; pieni d'ingegno quasi sempre, più avanzati del loro secolo; indipendenti come l'aquila delle Alpi, pronti al bene quanto al male, inquieti, travagliati, turbolenti - i quali - e per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa, e ciò che hanno in tasca, e per una loro maniera eccentrica e disordinata di vivere, e per… mille e mille altre cause e mille altri effetti il cui studio formerà appunto lo scopo e la morale del mio romanzo - meritano di essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte quante le altre. Questa casta o classe - che sarà meglio detto - vero pandemonio del secolo, personificazione della storditaggine e della follia, serbatoio del disordine, dello spirito d'indipendenza e di opposizione agli ordini stabiliti, questa classe, ripeto, che a Milano ha più che altrove una ragione e una scusa di esistere, io, con una bella e pretta parola italiana, l'ho battezzata appunto: la "Scapigliatura Milanese”». 

Così scriveva nel 1862 Cletto Arrighi (Carlo Righetti) nel romanzo “La Scapigliatura”, che fu il manifesto dell’omonimo movimento artistico che si ispirava alla vita e all’opera dei Bohémiens e dei poeti maledetti d’oltralpe.
“Le memorie del presbiterio”, opera degli Scapigliati Emilio Praga e Roberto Sacchetti comparve a puntate su “Il Pungolo” tra giugno e novembre del 1877. In anni recenti il paese di Sulzena è stato identificato come il piccolo borgo di Luzzogno in Valle Strona, ma il romanzo cita ripetutamente il torrente, che viene anche magnificamente descritto.

“Scendevo così lentamente lungo le rive dello Strona, che mi affretto a presentarvi (cosa che avrei dovuto far prima), come il torrente più realista ed indocile alla moralità idrografica ch'io mi conosca. Figuratevi che egli non vuol saperne neppure per un minuto di quella linea retta, di quella misura costante che la convenienza dovrebbe insegnare anche ai torrenti per trasformarli, se Dio vuole, in quieti rigagnoli, in pingui ed onesti canali. Dimentico dei suoi doveri, del grande scopo della creazione che è quello di impinguare le tasche del negoziante di grano e di bestiame, sta asciutto la maggior parte dell'anno; poi, ad un tratto, quando il ghiribizzo gli salta, devasta pascoli e distrugge vigneti, cosa contraria all'economia politica; abbatte baite e casolari, attentato iniquo, come ognun vede, all'ordine a alla sacra prosperità della famiglia.
E il monello fa l'arte per l'arte; scende a balzelloni, rotolando massi dalla vetta di Cornalina, gitta sprazzi al sole per trame delle iridi cangianti. Si butta nei precipizii, si nasconde fra i cespugli, scompare nelle buche del monte, poi salta fuori a sproposito per tagliare il sentiero montanino, - e s'adagia fra l'erbe, e folleggia e spumeggia e si inebbria di libertà e di licenza - con una sicurezza come facesse la cosa più seria del mondo. Così non è buono a nulla, nè a far girare una ruota di mulino nè ad irrigare un pascolo, nulla!... malgrado tutti i tentativi fatti dai buoni padri coscritti di Zugliano e di Sulzena e persino dall'illustrissimo Consiglio provinciale di Novara per correggerlo e trarne qualche costrutto. Tanta è la sua impertinenza, che se poteste intenderlo, vi direbbe che Dio l'ha fatto a quel modo e che vuol tirar innanzi in quella bizzarra sua maniera, - tutte cose che dicono gli scapestrati.”

Praga e Sacchetti non furono, comunque, gli unici Scapigliati a frequentare le terre attorno al lago d’Orta. Ma ne parleremo la prossima volta…

Nella foto, Emilio Praga con gli Scapigliati Carlo Dossi e Luigi Conconi.

mercoledì 20 novembre 2013

Spiriti bizzarri



Il lago d’Orta sembra avere, tra le tante, una virtù particolare: quella di generare o attrarre spiriti bizzarri. Lo dico, sia ben chiaro, con grande affetto e stima per questi scrittori, per lo più ma non solo, che hanno lasciato tra le pagine più belle dedicate a questo piccolo specchio d’acqua, popolandolo di personaggi indimenticabili.
Ma, per citare Domenico Brioschi, che a buon diritto fa parte di questo elenco, procediamo con ordine!  

Partiamo dal decrepito e ricchissimo novantaquattrenne barone Lamberto che vive sull’isola di San Giulio e paga sei persone per ripetere incessantemente il suo nome, avendo scoperto essere questo rimedio infallibile per sopravvivere alle sue ventiquattro malattie e anzi addirittura per ringiovanire. 
Il protagonista di “C'era due volte il Barone Lamberto ovvero I misteri dell'isola di San Giulio” uscì dalla fertile penna di Gianni Rodari, grande narratore di storie per l’infanzia, che delle fantasie bizzarre e dei pensieri anarchici era non solo un maestro, ma anche un grande estimatore. Del resto era nato ad Omegna, città attraversata dalle acque della Nigoglia, da cui, sempre secondo lo stesso Autore, fu tratta una lapide che diceva “La Nigoeuja la va in su; e la legg la fèm nϋ!” (“La Nigoglia scorre in su; e la legge la facciamo noi!”). Tra le molte opere di Rodari c’è n'é un’altra ambientata sul lago, anzi nel lago: è la storia di un Ragioniere diventato un pesce del Cusio per risanare il lago d'Orta, allora pesantemente inquinato. Un'idea folle, diventata realtà pochi anni dopo, come spesso accade per le imprese apparentemente impossibili.

Di un altro personaggio singolare ho scritto tempo addietro, ma vale la pena riparlarne. Riuscite ad immaginare che un agente segreto libertino possa diventare Pontefice? Un uomo ci riuscì, benché il suo nome non fosse Bond, ma Piccolomini, Enea Silvio Piccolomini. In comune con 007 il Nostro aveva il rapporto con la Scozia. A differenza dall’agente di Sua Maestà, che per parte di padre è scozzese, Piccolomini compì nel 1435 una missione segreta in Scozia per convincere il re di quella terra, allora indipendente, ad entrare in guerra contro gli Inglesi. E, poiché Enea Silvio era non solo un famoso scrittore umanista ma anche un appassionato amante del gentil sesso, pare che durante il suo viaggio abbia messo incinta non una, ma ben due donne. Forse anche per questo effettuò il viaggio di ritorno attraverso l’Inghilterra travestito in modo da non essere riconosciuto da nessuno. Ad ogni modo durante i suoi avventurosi viaggi fu anche sul Lago d’Orta, che descrisse in versi latini molto belli prima di salire al soglio pontificio, nel 1458, col nome di Pio II. Nei sei anni di regno riuscì persino ad essere un buon Papa, capace di arginare le richieste nepotistiche dei familiari con versi passati alla storia: «Quand'ero solo Enea / nessun mi conoscea / Ora che son Pio / tutti mi chiaman zio».

Ernesto Ragazzoni, nativo di Orta, fu giornalista e scrittore. Capace di rime delicate come “Rose sfogliate”, fu però anche un anarchico cultore di discipline teosofiche e occultiste. Le sue critiche alla buona società novarese gli fecero perdere il posto di direttore alla Gazzetta di Novara. Il suo spirito goliardico gli dettò invece “L'Apoteosi dei Culi d'Orta”, composta in occasione dell'inaugurazione di pubblici gabinetti in quella città. Se non la conoscete potete leggerla qui.

Ragazzoni era un ammiratore di Friedrich Nietzsche che aveva effettuato un breve soggiorno ad Orta nel 1882. Il filosofo faceva parte di una compagnia composta dalla ventunenne Lou Salomé, dalla madre di lei e dal migliore amico di Nietzsche, Paul Rée.  In un pomeriggio di maggio Friedrich si ritrovò solo al Sacro Monte di Orta con l’affascinante e “intelligentissima” Lou, che  aveva salutato, al momento del loro primo incontro, con queste parole: «Da quali stelle siam caduti per incontrarci qui?»
Non è chiaro ciò che accadde quel giorno.  Molti anni più tardi Lou scrisse distrattamente che “forse” l’aveva baciato, ma che non ricordava con esattezza. In ogni caso, per la giovane la cosa finì lì, mentre per l’uomo, che aveva 17 anni più di lei, l’evento fu travolgente e l’accese di una passione amorosa e intellettuale che sprofondò nella disperazione quando finalmente comprese la verità. Negli anni seguenti scrisse le sue opere più famose, prima del crollo nervoso definitivo che lo portò ad abbracciare e baciare un cavallo a Torino e a trascorrere gli ultimi anni di vita in una casa di cura per malattie mentali. Potenza di quel bacio “forse” dato o dei panorami del lago d’Orta? Difficile dirlo e soprattutto disgiungere il lago e l’amore, dal momento che è giustamente ritenuto uno dei laghi più romantici al mondo.

Ma continuate a seguirci, perché l’elenco degli autori è ancora lungo…

mercoledì 13 novembre 2013

Ma procediamo con ordine

Presumo che solo pochi tra i cinque (quattro escluso l’autore) lettori di questo blog sappiano che sulla ridente sponda (non so perché sia sempre così ilare, forse perché è la “sponda grassa” piemontese e se ne sta di fronte alla “magra”, situata in territorio lombardo) del Lago Maggiore esiste una villa legata a un “Gigante del Palcoscenico”. Stiamo parlando, naturalmente, del più grosso basso lirico dell’Ottocento, il milanese Achille Bianchini, nome d’arte di Antonio Scazzosi, nato il 10 ottobre 1843 in una modesta cascina tra Mesero e Marcallo, dalle parti di Magenta.
Dotato di “un fisico imponente e di una voce erculea”, per citare le parole del suo più illustre (e finora unico) biografo, calcò le scene per oltre 40 anni facendosi notare per una voce che “si diceva provenire nientemeno che dal centro della terra”. Caratteristica questa che gli fruttò l’ulteriore soprannome di “Voce di Pluto”.
Personaggio senz’altro scomodo e controverso (“una voce monumentale in un monumentale cretino” disse Puccini), al termine della carriera cercò e trovò conforto nella fede grazie a Monsignor Rubinelli che riuscì a riportare sulla retta via la pecorella smarrita, invogliandola a trovare la strada dell'ovile con la pastura adatta. Che nel caso del Bianchini era costituita da rane di Caltignaga, fidighina (mortadella di fegato suino) di Nebbiuno e orecchie di maiale fritte di Suno accompagnate dall’ottimo Nebbiolo ricavato dalle vigne del “Motto Sifolone”.
La biografia del Bianchini non specifica se avesse già in animo il progetto o se questo sia stato concepito durante uno di questi ritiri spirituali. Fatto sta che il Nostro investì il proprio patrimonio in una villa costruita tra Lesa e Belgirate. “Villa Attila” avrebbe dovuto chiamarsi, ma per via della curiosa forma dei due monumentali pilastri d’ingresso a forma di lingam, che avrebbero dovuto rappresentare due simboli sacri alla religiosità degli Unni, il complesso fu ribattezzato dagli indigeni (che nulla sapevano dei lingam e degli Unni, ma che avevano perfettamente compreso il significato di “quei cosi”) “Villa Pirla”. E chi mastica un poco di lombardo avrà a sua volta capito, senza ulteriori spiegazioni, quale forma avessero quei pilastri…

Ma procediamo con ordine.

Le vicende che ruotano attorno all'edificio sono ancora lunghe e complesse e meritano di essere lette direttamente dalla penna del “biografo” del Bianchini… vale a dire dal cusiano Domenico Brioschi che tra le pagine di “Villa Pirla. Ma procediamo con ordine” ha saputo narrare le spassose vicende degli strambi personaggi che ruotano attorno a un edificio dal nome tanto singolare. O, per citare ancora il Brioschi, “una storia come spazio di rappresentazione dell’Ego dei proprietari che vi si succedono. Onestamente ogni tanto mi piacerebbe sapere ciò che scrivo”.

E con questo auspicio, che sottoscrivo, vi invito a leggere questo agile librettino di 116 pagine e vi do appuntamento la prossima settimana con altri curiosi narratori cusiani. 

lunedì 11 novembre 2013

Bosco di fiabe



Il 21 novembre 2013, alle ore 10.30, avrà luogo, nelle sale della Biblioteca Civica di Cameri la premiazione della III edizione del concorso Biennale per Giovani Illustratori.

Creato in collaborazione alla memoria dell’illustratrice per ragazzi Augusta Curreli, questo concorso vuole dare spazio ai giovani illustratori ed aiutarli ad affermarsi nel mondo del lavoro.
La fiaba proposta per questa edizione è “Giuanin senza paura”, nella versione popolare della nostra zona. 
Presidente della giuria è Walter Fochesato (rivista Andersen). 
La mostra dei lavori selezionati per il premio sarà visitabile dal 27 ottobre al 21 novembre in biblioteca.

 “In un Paese come l'Italia, dove i giovani hanno grosse difficoltà ad emergere, spesso messi da parte, per non dire sfruttati, l'impegno ad aiutare i nuovi talenti è sempre più attuale se non doveroso.
Il Comune di Cameri consegnerà un premio di 1.000 euro che sarà ripartito tra i primi due classificati, uno scelto dalla giuria di adulti, l’altro dalla giuria dei ragazzi.
Gli organizzatori del Premio credono che grazie alla cultura le persone possano divenire migliori e la società fare un passo avanti. Sappiamo anche che Augusta Curreli sarebbe stata con noi con tutto il suo entusiasmo e la sua competenza in questa impresa che per il paese di Cameri rappresenta un segno di fiducia nel valore delle giovani generazioni.”

Saranno premiati:
Matteo Pavani, Bellinzago (NO) per la Giuria adulti.
Letizia Rossi, Cocomaro di Focomorto (FE) per la Giuria ragazzi.

Per contatti e informazioni: biblioteca@comune.cameri.no.it tel 0321.510100

mercoledì 6 novembre 2013

Fanno il deserto e lo chiamano pace

Questa è una storia che viene da un altro tempo e da un altro luogo. Una storia la cui eco ha attraversato i secoli ed è giunta fino a noi. 




Su una brulla montagna battuta dal vento che portava il nome di Monte Graupius si radunarono gli ultimi Caledoni liberi, relitti della sconfitta isola di Britannia. Davanti a loro stavano schierate le armate del più potente impero che sia mai sorto sotto il sole d’Europa. Alle loro spalle non c’era che la distesa fredda e tempestosa del Mare del Nord. Il più distinto per valore e nobiltà tra i diversi capi, colui che portava il nome di Calgaco, si fece avanti e tenne un discorso ai Caledoni, spronandoli alla resistenza.

«Ogni volta» gridò «ogni volta che penso alle cause della guerra e alla situazione in cui ci troviamo, nutro la grande speranza che questo giorno e la vostra unione siano per tutta la Britannia l'inizio della libertà. Perché per voi tutti che siete qui e che non sapete cosa significhi la servitù, non esiste altra terra oltre questa e neppure il mare è sicuro, da quando su di noi incombe la flotta romana. Per questa ragione, nel combattere, scelta gloriosa dei forti, troverà sicurezza anche il codardo. I nostri compagni che si sono battuti prima di adesso con diversa fortuna contro i romani avevano in noi l'ultima speranza di aiuto, perché noi, i più rinomati di tutta la Britannia avevamo persino gli occhi non contaminati dalla schiavitù.»
I Caledoni – i volti dipinti coi colori di guerra dei diversi clan – approvarono battendo le lance contro gli scudi.
«Noi» riprese «noi che siamo al limite estremo del mondo e della libertà, siamo stati fino a oggi protetti dall'isolamento e dall'oscurità del nome. Ora, tuttavia, si aprono i confini ultimi della Britannia e l'ignoto è un fascino. Ma dopo di noi non ci sono più altre tribù, ma soltanto scogli e onde e un flagello ancora peggiore, i romani, contro la cui prepotenza non servono come difesa neppure la sottomissione e l'umiltà.»
Aveva bene in mente la sorte degli altri Britanni, costretti alla schiavitù e oltraggiati nella proprietà, nel corpo e nell’onore. La sorte di Boudicca, la regina degli Iceni, derubata del suo regno, frustata e costretta a vedere l’oltraggio alle figlie; Boudicca che aveva guidato la sollevazione dei Britanni; Boudicca che era una donna alta e dall'aspetto terrificante, con gli occhi feroci e la voce aspra; Boudicca dalle chiome fulve che le ricadevano in gran massa sui fianchi e indossava invariabilmente una collana d'oro e una tunica variopinta, coperta da uno spesso mantello fermato da una spilla; Boudicca che, mentre parlava, teneva stretta una lancia che contribuiva a suscitare terrore in chiunque la guardasse; Boudicca, che aveva combattuto alla testa dei suoi ed era stata sconfitta ed uccisa con altri ottantamila.
«Razziatori del mondo» riprese «adesso che la loro sete di universale saccheggio ha reso esausta la terra, vanno a cercare anche in mare: avidi se il nemico è ricco, arroganti se povero, gente che né l'oriente né l'occidente possono saziare.»
Infine Calgaco il Caledone, colui che i Romani consideravano un barbaro, puntò l’indice contro la superpotenza che schierava le sue perfette macchine da guerra contro pastori e contadini. Il suo divenne il dito di quanti, in ogni tempo e in ogni luogo non hanno paura di condannare il cinismo della diplomazia al servizio della sete di conquista.
«Loro bramano possedere con uguale smania ricchezze e miseria. Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero. Infine, dove fanno il deserto, dicono che è la pace.»

Così parlò Calgaco il Caledone prima dell’ultima battaglia. Roma, ancora una volta, trionfò, ma le parole di Calgaco non vennero disperse dal vento dopo la disfatta. Alcuni anni più tardi Publio Cornelio Tacito le raccolse dal suocero, Gneo Giulio Agricola, il generale che aveva annientato l’ultima resistenza dei Caledoni, e le trascrisse nei suoi Annali, rendendole immortali.

L’immagine ritrae naturalmente William Wallace (1270 –1305) interpretato da Mel Gibson nel film Braveheart (1995). Wallace fu un condottiero scozzese che, oltre mille anni dopo Calgaco, guidò gli Scozzesi alla rivolta contro gli Inglesi.

mercoledì 30 ottobre 2013

Aspettando il Grande Cocomero



Linus van Pelt, uno dei bambini protagonisti dei Peanuts, è convinto che nella notte di Halloween il Grande Cocomero sorga dall'orto più sincero per elargire doni ai bambini. Ogni anno gli scrive, come a una sorta di Babbo Natale, e ogni anno cerca di convincere gli altri bambini e il cane Snoopy ad attendere con lui l’arrivo del Grande Cocomero. La sua fede tuttavia non riesce a contagiare gli amici che prima o poi lo lasciano solo per andare a praticare il tradizionale "dolcetto o scherzetto". 
Così, invariabilmente ogni anno, il Grande Cocomero non si manifesta al povero Linus cui non resta che tornarsene a casa, deluso. La sua fede, tuttavia, non si spezza e l’anno successivo potete stare certi che sarà di nuovo lì, ad aspettare il Grande Cocomero.

Non ho idea del perché nella traduzione italiana “The Great Pumpkin”, vale a dire “la Grande Zucca" sia diventata un cocomero. Farse perché all’epoca dell’arrivo dei Peanuts in Italia le zucche della festa di Halloween erano molto meno conosciuta dei cocomeri? Ad ogni modo, se condividete la fede di Linus, sarà meglio passare la notte di Halloween in un orto dove non ci siano cocomeri, ma zucche, come quello nella foto ad Ameno.

Se poi volete approfondire le sorprendenti origini di questa festa vi rimando a questo post scritto cinque anni fa ma sempre attuale.

Se invece pensate che queste siano storie vecchie, morte e sepolte, vi devo dire due cose. La prima è che stiamo proprio parlando di morti che escono dai luoghi dove erano sepolti, come quelli che vanno a costituire l’Armata delle Tenebre  in questo racconto.

La seconda è un fatto che mi è accaduto realmente. Stavo appunto parlando delle origini di Halloween in un ristorante della valle Strona, quando fui interrotto dal brusio che si levava da uno dei tavoli. Quando chiedemmo cosa stesse accadendo, scoprimmo che un’anziana signora, che mai aveva sentito parlare di Halloween, dei Celti, di Hellequin e della sua masnada, stava raccontando una storia. Quando era piccola sua nonna le raccomandava di non stare in mezzo alla strada la sera del giorno dei morti, perché in quelle ore sarebbero passati gli spettri in processione.

Si trattava certamente della stessa tradizione che ho raccontato qui prendendo spunto da una vecchia leggenda.

mercoledì 23 ottobre 2013

Le risaie di Noè


Un problema angustiava il Grande Tessitore. Per anni aveva lavorato nell’ombra per creare le condizioni per rendere possibile quello che migliaia di cospiratori in tutta Italia attendevano.
Aveva ottenuto l’attenzione dei Grandi d’Europa inviando i soldati del piccolo regno di cui era Primo Ministro a combattere una guerra ai confini dell’Asia. 
Aveva stretto accordi segreti con l’Imperatore dei Francesi, promettendo cessioni territoriali dopo la vittoria e dandogli un piccolo anticipo. Gli aveva infilato nel letto un’incantatrice, una sua affascinante cugina, che aveva saputo sedurre l’Imperatore e guadagnarlo alla causa del piccolo regno.
Aveva anche riarmato l’esercito, il cui nerbo era costituito da montanari e contadini perfettamente addestrati e disciplinati il cui motto era “non ti muovere”. Ed erano davvero capaci di non muoversi di un metro, di non cedere posizione nemmeno davanti alla carica della cavalleria, scaricando una scarica di fucileria dopo l’altra prima di andare all’attacco con le baionette inastate.
Tutto era pronto, insomma, salvo un piccolo dettaglio. La condizione perché la Francia scendesse in guerra a fianco del Piemonte contro l’Austria era che fosse questa la prima ad attaccare. 
Ciò presentava tre problemi. 
Innanzitutto tra l’esercito alleato francese e il Piemonte, c’erano di mezzo le Alpi, il che implicava che per alcuni giorni o settimane i Piemontesi avrebbero dovuto cavarsela da soli.
Purtroppo però la disparità di forze militari era a sfavore dei Piemontesi, che erano numericamente soverchiati dagli Austriaci e da soli sarebbero andati incontro alla sconfitta, come a Novara nel 1849. 
Infine la distanza tra il confine, il fiume Ticino, e la capitale del regno, Torino, era di un centinaio di chilometri, distanza che poteva essere percorsa in breve tempo.
Il risultato di questa equazione era uno solo: gli Austriaci avrebbero raggiunto la capitale prima dell’arrivo degli alleati. Un disastro insomma...

giovedì 17 ottobre 2013

Una solenne tirata d’orecchie

«Devo tirarti le orecchie!»
Mi apostrofò così un’amica mentre scalavamo sentieri sassosi. Sulle prime cercai di far notare che il mio compleanno era ancora lontano, ma il suo sguardo serio e, soprattutto, il drago che portava appollaiato sulla spalla m’indussero ad ascoltare il resto del discorso. Conosco bene, infatti, quel tipo di drago. E so che, benché non sia ancora in grado di parlare perché è un cucciolo, è già molto velenoso. Se aggiungete che è destinato a crescere e a diventare sempre più famelico, comprenderete meglio la mia cautela nel contraddire la sua portatrice umana.
«L’altro giorno» iniziò a spiegarmi la ragazza col drago «sono venute da me due persone. Mi hanno detto di aver scoperto il mio blog tramite il tuo e che volevano incontrarmi alla presentazione del libro che c’è stata ieri.»
Dovete sapere infatti che l’amica, mia e del drago, è una scrittrice che ha pubblicato vari racconti e recentemente un romanzo ambientato sul lago d’Orta, di cui ho parlato qui.
«Mi hanno detto, anche, che è un peccato che tu sia così latitante, ultimamente. Il blog viene aggiornato troppo poco! Ho promesso loro che ti avrei dato una bella tirata d’orecchie!»

Allora feci l’unica cosa che potevo fare in quel frangente. Spiegai  

1) che il lavoro assorbiva buona parte del mio tempo. Il che è vero, ma è palesemente una scusa fragile, perché ho sempre scritto i miei testi a casa. Così aggiunsi

2) che in realtà ero stato impegnato a scrivere dei racconti per partecipare a diversi concorsi letterari (comprese le selezioni per un talent letterario televisivo), in uno dei quali  ho persino vinto (colgo l’occasione per ringraziare gli organizzatori di GialloStresa) un soggiorno premio in una bellissima località ossolana

3) che a casa sono impegnato a (fingere di) aiutare Malikà nella Missione Impossibile di conciliare i suoi doveri di mamma e folletta lavoratrice, ma che soprattutto 

4) è impossibile avvicinarsi al PC prima di una certa ora, perché come ti siedi ecco materializzarsi dal nulla di fianco al tuo gomito una testolina che grida
«CATONE!»
che tradotto dal bimbese di mia figlia all’italiano standard suona pressappoco così
«Voglio sentire le mie canzoni preferite su you tube e se non me le farai ascoltare subito ripeterò enne volte la mia richiesta e se non basterà inizierò ad allungare le mani verso la tastiera e se questo ancora non ti avrà convinto mi metterò a piangere.»
Comprenderete che non si può far piangere una bimba che vuole solo essere presa in braccio per ascoltare le sue canzoni del cuore che, per la cronaca, sono "POTOTATO" ("The lion sleeps tonight") “LEONE” (“Il cerchio della vita” da “Il re leone”  ), CIUNCA (“lo stretto indispensabile” da “Il libro della giungla”  ) e “CAVALLO BALLA” (“La danza del regno” da “Rapunzel”). 
Così prima dell’ora della nanna della bimba al computer non si riesce proprio a lavorare e dopo di questa si avvicina pericolosamente l’ora del sonno per chi a quel punto dovrebbe scrivere. 

Aggiunsi anche alcune classiche, come

«C'è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette!»

scuse che di solito funzionano sempre con le ragazze, anche se sono armate di mitra. Almeno nei film. Purtroppo per me non eravamo a Hollywood e la ragazza non aveva un mitra, ma un drago puntato a pochi centimetri dalla mia faccia. Una creatura, aggiungo, dalla cui gola proveniva un brontolio minaccioso. Un verso che diceva tutto e nulla di buono prometteva.
Come tutti sanno, i draghi sono maestri dell’inganno, per cui fregarne uno è come cercare di vincere al Superenalotto. Si dice che qualcuno ci riesca, di tanto in tanto, ma del fortunato, guarda caso, non c’è mai traccia.
A quel punto avrei potuto forse raccontare la verità pura e semplice. Purtroppo, come diceva Oscar Wilde, "la verità è raramente pura e mai semplice". Nel mio caso poi sarebbe sembrata il parto della fantasia di un poeta ebbro d’idromele, così chinai le testa e tacqui.

Il risultato lo vedete. Non mi riferisco all’immagine iniziale, anche se confesso che un tantino male le orecchie mi fanno ancora, quanto al presente post che è un modo per tener fede alla promessa di scrivere con maggior frequenza. Diciamo settimanale? Va bene, diciamolo.

Un’ultima cosa: per gli scettici, che abbondano sempre in ogni parte del mondo, la ragazza aveva veramente un drago sulla spalla. Guardate qui, se non mi credete… 

venerdì 11 ottobre 2013

Un amico di spirito



Caronte è un tipo di spirito. Non mi riferisco alle sue battute, che di solito sono monotematiche e di dubbio gusto, e nemmeno ai due simpatici baffoni che stanno tra il sorriso sornione e l’occhietto furbo. È il perenne grado alcolico all’interno del suo sistema vitale che lo rende molto simile a una di quelle bottiglie di liquore con percentuali a due cifre.
La sua giornata si apre col bianchino delle sette e si chiude – dopo una serie di bianchi, rossi, aperitivi, rovinati e grappe varie – a un’ora variabile della sera quando si avvia traballante verso casa o, nei casi estremi, quando la moglie viene a prenderselo con la carriola.
È pertanto un mistero, per me, come possa dirigere la sua barca infallibilmente e senza incidenti. Certo, c’è la storia di quel poeta tedesco con cui ebbe una collisione una sera dello scorso inverno, ma occorre dire che anche l’altro, quando lo ripescarono dall’acqua, era palesemente così su di giri che non si poté mai stabilire con esattezza chi avesse urtato chi e di chi fosse stata la precedenza.
Anzi in quell’occasione il pubblico dei bar di Orta si divise in due accese fazioni contrapposte. Non esattamente alla pari, dovrei aggiungere, perché da una parte c’era Caronte con tutti gli ortesi, per una volta incredibilmente uniti in un partito solo, dall’altra stava il solo Günther che proclamava, in un sincretismo urlato di termini nord e sud alpini, che era lui dalla parte giusta. D’altro canto, anche questo occorre dirlo, è un antico malvezzo dei poeti vedere sé stessi contrapposti al mondo intero, perché questo si ostina a non tributare loro il riconoscimento che senza dubbio alcuno meritano.
Ad ogni modo, se la vostra idea di divertimento coincide con quella di Caronte, potete raggiungerlo nel bar di Orta dove staziona quasi permanentemente. 
Se però poi fate la fine del povero Silvestro – che trovai una mattina sopra la scatola e che dopo qualche ora era riuscito, non saprei dire come e apparentemente senza aiuto, a rimettersi (quasi) in piedi – non lamentatevi: io vi avevo avvertito.



mercoledì 7 agosto 2013

Dedicato a chi si mette in viaggio


"Partire è un po' morire
rispetto a ciò che si ama
poiché lasciamo un po' di noi stessi
in ogni luogo ad ogni istante."

Così scriveva Edmond Haraucourt, ma partire è sovente l'unico modo per ritrovare noi stessi. A tutte le amiche e gli amici che in queti giorni si mettono in viaggio voglio dedicare il nuovissimo numero di A6 Fanzine, appena sfornato dalle vulcaniche Sara & Isa.

Lascio a loro la parola, non senza avvertirvi che c'è anche un mio raccontino, firmato Errante.

Per scaricarla basta cliccare sull'immagine.


Tempo di vacanze, di sole, di mare, di montagna e di città!

Il viaggio è qualcosa di eccezionale, fantastico ed emozionale.
Un viaggio arricchisce la mente, espande i propri orizzonti culturali ed amplifica le emozioni.

Quella magia scaturita nell'attesa della partenza, quando anche l'ultima cosuccia che credevate aver dimenticato viene messa in valigia, pronti per partire verso la meta ambita.

Un viaggio rimane scolpito indelebile nella mente, sulla pelle, negli occhi.

Questo è quello che vi racconteremo con questo numero di A6 Fanzine, augurandovi di poter viaggiare, conoscere luoghi e persone ed arricchire così la vostra persona, pronta nuovamente ad affrontare una nuova avventura.

Un numero dedicato anche a coloro che purtroppo quest'anno non potranno viaggiare, sperando di farvi sognare e scoprire i luoghi che noi stessi abbiamo visitato.

Con questo numero vi auguriamo buone vacanze!

Torneremo in autunno con numerosi progetti e naturalmente con la vostra fanza preferita!

Buone vacanze e buon viaggio!

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In questo numero:

ISACOMICS 
In Copertina - "Isa disegni a domicilio" | MusiComics - Duft Punk | "Un'avventura..." - Fumetto | Isa in Love - Però mi vuole bene | 4° di Copertina - 
SlamDunk Tenerife |

ILLUSTRAZIONI & FUMETTI 
A volte un viaggio... 
- Illustrazione e Vignetta di Alberto Corradi | Kikka e Kikko -  Fumetto di Dea Fumettista | "Si... viaggiare" - Illustrazione di Kat | Le vicende poco quotidiane di Mobu & Al in "In Viaggio" - Illustrazione di Ranghos | Autostop - Illustrazione di Umberto Buffa | Partenza - Vignetta diPulci | Illustrazione di Irene Dose | Viaggio - Striscia di Jabez White | Illustrazione di Cube |

RECENSIONI 
DISCO - "Controra", degli Almamegretta - rubrica a cura di SaDiCa | DISCO "Italiano" di La Musa - rubrica a cura di SaDiCa | FUMETTI - "Star Trek a fumetti", a cura di Stefano Avvisati | LIBRO - "Tu di che coppia sei?", a cura di Alessandro Tozzi |

RACCONTI & POESIE 

"L'ultimo viaggio" - Racconto di Errante | Poesia e scatto fotografico di Katia Picciariello |

INTERVISTE 

Marbara - rubrica a cura di SaDiCa | Twitterata con GUD - rubrica a cura di SaDiCa |

TEATRO
Il SottoTesto - "L'attore e il terribile viaggio verso l'affermazione", rubrica a cura di Fabrizio Romagnoli |

FOTO
Paris - foto di SaDiCa |

EVENTI - NEWS - RECENSIONI DAL BLOG

Narnia Fumetto, beneficienza | Lucca Comics & Games 2013 | Filippo Biagioli, Millennium | Sbam! Comics 10 | Intervista a Marco Petrella, autore di Stripbook | Kikka&Kikko, il giornalino di Dea Fumettista | Tu di che coppia sei?, la presentazione presso la libreria L'Aventure di Roma | Gelato Festival a Roma | Tu di che coppia sei?, la recensione | Io laureata, motivata, sfruttata... in stage!, la recensione | Crack!, la IX Edizione | Anticipazioni da Narnia Fumetto 8La Casati, la musa egoista, la recensione | La Sirenetta, la recensione | Inside Batman, l'intervista | Brian The Brain da Adolescente, la recensione | L'estate '79, la recensione | Orgoglio e pregiudizio, la recensione | Ritorno da Napoli Comicon 2013 | Intervista a Miguel Angel Martin, autore di Brian The Brain | Ritorno da Romics 2013 |Soy de Pueblo, la recensione | Armi di persuasione di massa, la recensione | Intervista a Raquel e Marta, le creatrici di Soy de Pueblo |  Ritorno da Cartoomics 2013

lunedì 29 luglio 2013

Per un amico che è andato avanti


Venerdì scorso se n'è andato il mio amico Aldo Maulini. Per chi non lo conosceva posso dire che era una delle persone migliori che abbia mai avuto il piacere e l'onore di frequentare. Un uomo di grande profondità e dai molteplici interessi, che spaziavano dai minerali ai bonsai, dalle scienze naturali all'archeologia, dalla speleologia all'agricoltura. 
Un uomo che ha dedicato molti anni della sua vita ad insegnare ai ragazzi nella fattoria didattica dell'Alpe Selviana - che aveva creato dal nulla, rimettendo in piedi con alcuni amici un vecchio alpeggio abbandonato - ad "essere consapevoli". Il tutto con grande umiltà e semplicità.

Ricordo quando venne a trovarmi per dirmi, con grande serenità, che i disturbi che da alcuni mesi lo affliggevano, erano i sintomi della SLA. Una malattia che non dà scampo e che, con una velocità impressionante, lo ha privato giorno per giorno dell'uso del corpo, lasciando la mente vigile, prigioniera di un involucro sempre più fuori dal suo controllo.
Negli ultimi tempi, grazie all'uso di un visore ottico era ancora in grado di scrivere, componendo con gli occhi lettera dopo lettera. Un'operazione faticosa e lunga, che ormai padroneggiava così bene da divertirsi a scrivere in dialetto, con esiti spassosi, perché il programma era più lento di lui e non riusciva a capire altra lingua che quella in cui era programmato.
Perché Aldo, nonostante la malattia, non solo trovava ancora la voglia di ridere e scherzare, ma anche di lottare, mettendoci la faccia e praticando lo sciopero della fame, per i diritti dei malati chiedendo il rispetto delle promesse fatte dal governo e più volte rimangiate.
Ma non solo per questo ha lottato. L'ultima mail che ha scritto era rivolta ai soci dell'ecomuseo, di cui è stato uno dei fondatori nel 1997, per invitarli a non disperdere quanto è stato fatto in questi anni. Un invito a conservare i semi in questi tempi di siccità per quando saranno nuovamente propizi alla semina.

Lo voglio ricordare con una foto, scattata da suo figlio Marco, mentre rileva fotograficamente un masso coppellato da loro scoperto sopra Agrano. Tra le molte ho scelto questa perché Aldo, come ha detto l'altro suo figlio Andrea, "era un uomo pieno di interessi, ma un padre mai assente". Aver lasciato una bella famiglia è stato uno dei tanti frutti di un uomo che ha seminato bene.

Lo voglio ricordare anche con le sue stesse parole. Parole scritte pochi mesi prima di scoprirsi malato, che riassumono una filosofia di vita che merita di essere ascoltata. Perché Aldo era contemporaneamente un uomo dalle ferme convizioni e dalle scelte spesso controcorrente, ma era anche estremamente tollerante rispetto alle diverse visioni del mondo.

«Sono fermamente convinto che in un ogni granello di sabbia siano compresi tutti i principi che regolano l'universo. Quest'ottica mi accompagna anche durante tutte le esperienze che vivo con i ragazzi delle scuole da 27 anni a questa parte.
Tendo cioè ad accompagnare i miei giovani compagni di viaggio a esplorare il mondo in tutti i suoi aspetti, in modo da diventare coscienti che ne facciamo parte anche noi e in modo da diventare consapevoli che ogni nostra azione, o non azione, ha un effetto sul tutto.
Ognuno di noi può affrontare il mondo in cui vive in due modi.
Possiamo vivere la vita in modo “piatto”, superficiale, dove tutto è sempre uguale a se stesso e dove crediamo che tutti i “sani” ragionino allo stesso modo, con gli stessi valori. In quest'ottica ogni volta che qualche cosa cambia, o qualcuno esprime un modo di ragionare diverso, si tende a riportare tutto alla rassicurante “normalità”.
Se invece teniamo come riferimento la frase illuminante “L'occhio vede ciò che la mente conosce” si aprono prospettive completamente diverse. A quel punto il “tutto” di cui facciamo parte inizia a delinearsi come un insieme infinito di “paesaggi”, diversi per ognuno di noi in base alle proprie conoscenze, esperienze, età, ecc.
Ad esempio, se qualcuno, o noi stessi in un certo momento, guardiamo il mondo con un filtro verde vediamo tutto con tonalità verdi; idem se qualcun altro, o noi stessi in un momento diverso da prima, guardiamo attraverso un filtro rosso: vediamo tutto con tonalità rosse.
Nessuna delle due visuali è “sbagliata”: semplicemente è una visuale parziale del tutto.
Per tendere a farci un'idea il più completa possibile si può giocare a guardare da più filtri, un po’ come avviene ultimamente nei film 3D, sempre però rimanendo consapevoli della parzialità del risultato, per altro in continuo mutamento.»

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"Di un fatto del genere fui testimone oculare io stesso".

Ludovico Maria Sinistrari di Ameno.