Boston 1952
Ricordo che, un giorno, Solange mi chiese se credessi in Dio.
Delle donne della mia vita – così mi piace chiamarle per quanto fugaci meteore siano state nella mia esistenza – conservo intensi frammenti di memoria: le lacrime di Charlotte – la prima – mentre le mostravo l’anello; i capelli biondi di Margot; il coraggio della giovane Dolores; e le mille domande di Solange.
Risposi affermativamente, argomentando con dotti sillogismi teologici, retaggio dei miei studi seminariali, ma mentivo. Tutt’al più posso ammettere l’ipotesi di un capriccioso Monsieur Chance che distribuisce le carte, lasciando a noi il cruccio di come giocarle, sebbene talora parrebbe volerci suggerire la giocata migliore.
Come nel caso della sorella di Margot. Ho sempre avuto cura di sceglierle orfane, vedove e possibilmente senza troppi conoscenti, oltre che benestanti, ça va sans dire. Margot tuttavia mi aveva mentito – da buona borghese se ne vergognava – tacendo di una gemella, adottata come lei, ma da un’altra famiglia. Josephine, invece, si era ficcata in quella testolina bionda l’idea di ritrovare la sorella. A furia di fare domande era riuscita a trovare una traccia, un biglietto – dimenticato in un abito affidato ad una sarta e mai ritirato – in cui Margot aveva appuntato il mio recapito.
Ingannai Solange come tutte le altre. Simulare una fede è il modo migliore per sviare sospetti. Pensare che un criminale sia riconoscibile dall’aspetto o dalle sordide abitudini è senza dubbio più rassicurante che sospettare lo sia il gentiluomo che ti porge la destra tra i banchi di una chiesa.
Le dissi che era partita per gli Stati Uniti dopo la rottura del nostro fidanzamento. Parlò di una sensazione negativa, come se alla gemella fosse accaduto qualcosa di molto grave. Mi offrii gentilmente di aiutarla nella ricerca e domandai se avesse già informato la polizia o qualcun altro.
No, se davvero esistesse Dio, o una qualsiasi forma di Giustizia sotto il Cielo, io sarei morto o in galera per i miei crimini e Josephine non sarebbe sepolta nella cantina insieme alle altre.
Invece Monsieur Chance mi aveva suggerito di cambiare nome e paese. Così, in quell’aprile del Novecentododici – oggi così lontano – m’imbarcai sul modernissimo transatlantico “Titanic”, sfolgorante di donne romantiche, per incominciare la mia nuova vita oltreoceano.
Questo racconto è stato scritto per l'antologia
365 storie cattive. Il libro contiene 365 storie cattive, scritte da 365 autori in un massimo 365 parole. Il tutto per una
buona causa.
Rileggendo oggi il racconto, nasce qualche inquietante interrogativo. Josephine, la determinata sorella di Margot, non compare nell'elenco delle vittime fornito all'inizio dal misterioso assassino. Quante furono quindi realmente le donne assassinate sul suolo francese? Forse solo individuando la terribile cantina si potrebbe avere una risposta a questa domanda.
Ma soprattutto, poiché questa sorta di confessione fu scritta nel 1952 a Boston, quando il Novecentododici era ormai un ricordo lontano, quante furono le vittime di questo sconosciuto e impunito serial killer sul suolo americano?