Nel folto del bosco, dove gli alberi sono secolari, guidato infallibilmente dalla giovane Evelyn scopro un luogo che in teoria non dovrebbe esistere. Su tutti i tronchi, ma anche su ogni roccia tenera stavano due nomi legati insieme da diversi nodi. Erano incisioni antiche, parzialmente coperte dal muschio, ma i nomi erano ancora perfettamente visibili.
"Angelica e Medoro" lessi ad alta voce.
Quel luogo era impossibile. Come potevano essere davanti a noi le tracce dell'amore cantato dall'Ariosto cinquecento anni orsono? Un amore che ai suoi tempi, se non fosse stato frutto della sua mente, di anni ne avrebbe avuti circa settecento, peraltro.
Fra piacer tanti, ovunque un arbor dritto
vedesse ombrare o fonte o rivo puro,
v'avea spillo o coltel subito fitto;
così, se v'era alcun sasso men duro:
ed era fuori in mille luoghi scritto,
e così in casa in altritanti il muro,
Angelica e Medoro, in vari modi
legati insieme di diversi nodi.
Guardando quelle scritte mi vennero in mente le storie raccontate millanta volte da pupari che conoscevano a memoria l'Orlando furioso e le altre opere dei paladini pur senza averle imparate a scuola.
Come avesse letto nei miei pensieri Evelyn inizia a raccontarmi proprio la sua discendenza da una famiglia di pupari la cui arte era capace di rendere vivi e in carne ed ossa marionette di legno.
E mentre parlava mi sembrava di vedere gli alberi prendere forma e muoversi, come personaggi di un racconto incantato.