Ho fatto riferimento ieri alle vicende di un altro italiano all’estero, un uomo che ho avuto il piacere di conoscere alcuni anni fa, quando ancora era in vita.Voglio raccontarne qui le avventure. Una parte, perché ha avuto una vita decisamente movimentata.
Pino, questo il suo nome, era stato chiamato, come tanti della sua generazione, a servire nell’esercito durante la guerra. Dopo l’armistizio anch’egli si ritrovò in un campo di prigionia tedesco, assieme a tanti altri soldati italiani rastrellati dagli ex alleati. L’accusa di tradimento pesava su tutti loro, non avendo il regime nazista accettato quello che ai loro occhi era stato un voltafaccia dell’Italia. Così, per quelli che, come Pino, avevano rifiutato di arruolarsi sotto le insegne della Repubblica Sociale, la vita nei campi era dura. Bastava la minima mancanza per essere puniti e le guardie si abbandonavano sovente ad atti di violenza gratuita.
Un giorno Pino era stato messo a scaricare un vagone di carbone. Mentre era intento a gettarlo dall’alto con la pala, una guardia si avvicinò e, in maniera imprevedibile, allungò la mano. Voleva forse indicare qualcosa a qualcuno o sottolineare un ordine. Fatto sta che la pala e la mano si scontrarono, con danno per la seconda, naturalmente.
Il soldato, ferito e furibondo, portò immediatamente l’altra mano alla cinghia del fucile. Pino impallidì, comprendendo dall’espressione dell’uomo e dal gesto, che presto quel fucile sarebbe stato puntato contro di lui. Con quali intenzioni e con quali conseguenze non poteva saperlo, ma aveva ragione di temere le peggiori conseguenze. Non parlava tedesco, non c’erano testimoni e aveva di fronte a sé un soldato armato e furibondo.
L’istinto di conservazione e la disperazione gli suggerirono l’unico comportamento possibile. Alzò la pala e cominciò a brandirla minacciosamente contro il soldato, che sorpreso dall’inaspettata reazione, si fermò. Iniziò allora un muto dialogo, fatto di sguardi feroci ed espressioni del viso, che potremmo così trascrivere.
Tedesco: “Cosa vuoi fare con quella pala?”
Pino: “Lascia stare il fucile!”
T.: “Metti giù la pala o sparo!”
P.: “Se abbasso la pala tu mi spari, perciò lascia tu il fucile.”
T: “Guarda che ti sparo! Abbassa quella pala!”
P: “Prova a sparare e ti spacco la testa come un cocomero!”
T.: “Insomma, vuoi mettere giù quella pala?”
P.: “Togli tu la mano dall’arma!”
T.: “Abbassa quella pala, subito!”
P.: “Neanche per idea!”
La stasi durò a lungo, finché fu raggiunta una sorta di tregua. Il tedesco tolse la mano dall’arma e fece cenno all’italiano di seguirlo verso il campo. L’altro scese dal carro e prese a camminargli un passo dietro, sempre stringendo la pala.
Rientrato nella sua baracca, Pino fece appena in tempo a tirare il fiato che fu chiamato dall’ufficiale italiano che aveva la responsabilità degli altri internati.
“Cosa hai combinato?” gli chiese allarmato. “Il Comandante del campo dice che hai aggredito un soldato tedesco!”
“Signore” rispose Pino “vi chiedo solo di accompagnarmi, perché io non parlo tedesco, e di farmi da interprete. Spiegherò ogni cosa al Comandante.”
Così fu fatto e Pino si trovò davanti al Comandante, che lo investì di urla, minacciandolo di una punizione esemplare. Quando finalmente gli fu data la parola, cominciò a raccontare dell’incidente, avvenuto senza sua colpa; della reazione del soldato tedesco, che gli era parso chiaramente mosso da volontà omicida; e della sua difesa, condotta nell’unico modo possibile in quei frangenti, senza peraltro arrecare danni al tedesco che, se avesse voluto, avrebbe potuto facilmente uccidere.”
Pino era alto e robusto con mani grandi come pale, che sottolinearono quelle ultime parole con gesti eloquenti. Il Comandante lo lasciò andare, dicendo che avrebbe ascoltato anche il soldato, prima di decidere.
La mattina dopo il soldato saliva su di un camion, trasferito ad altro reparto e Pino non subì alcuna conseguenza per il suo gesto.
Alcuni anni dopo la fine della guerra, Pino andò in Belgio, a lavorare come minatore. Un giorno, uno dei sorveglianti tedeschi (molti erano impiegati come capi reparto nelle miniere) lo apostrofò in malo modo, urlandogli contro in tedesco l’insulto “italiano di merda”. Pino non sapeva molte parole di tedesco, ma quell’insulto lo conosceva bene, avendolo sentito mille volte nel campo di prigionia.
Stavolta però non aveva di fronte un soldato armato di fucile, così dovette intervenire una mezza dozzina di minatori per togliergli a fatica dalle mani il tedesco. Anche in questo caso fu convocato dalla direzione a spiegare il suo operato e ancora una volta gli venne data ragione.
La misura tuttavia era colma e Pino preferì tornarsene in Italia, questa volta per sempre.