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martedì 1 luglio 2008

Lettura del mese passato: Spingendo la notte più in là



Ho scommesso sulla vita, cos’altro potevo fare a venticinque anni con due bambini piccoli tra le mani e un terzo in arrivo? Mi sono data da fare tutti i giorni, unico antidoto alla depressione, e ho cercato di vaccinarvi dall’accidia, dall’odio, dalla condanna di essere vittime rabbiose. Questo non significa essere arrendevoli o mettere la testa sotto la sabbia. Significa battersi per avere verità e giustizia e continuare a vivere rinnovando ogni giorno la memoria. Fare diversamente significherebbe piegarsi totalmente al gesto dei terroristi, lasciar vincere la loro cultura della morte.


Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là, Milano, 2008, p. 128.


Se siete troppo giovani per sapere cosa sia stato il terrorismo in Italia, leggete questo libro.
Se non ricordate più ciò che accadde negli Anni di Piombo, leggete questo libro.
Se ricordate ciò che accadde in quei tragici anni, leggete questo libro.

Spingendo la notte più in là è la storia dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi, ucciso la mattina del 17 maggio 1972. È scritta dal figlio Mario, che aveva poco più di due anni quando suo padre venne assassinato.
Non solo.
Il libro racconta la storia di molte altre persone, cadute vittime del terrorismo dopo Calabresi. È la storia del calvario infinito dei parenti delle vittime, tra processi, apparizioni televisive degli ex terroristi e tardivi riconoscimenti da parte dello Stato.

Spingendo la notte più in là è un libro che andrebbe letto nelle scuole, perché spiega anche come la violenza e l’odio generino ferite che solo la voglia di vivere e la capacità di amare gli altri possono curare.

Spingendo la notte più in là fa riflettere, perché mostra come ancora in anni recentissimi sia possibile creare una “leggenda nera” attorno ad un uomo, fino a distruggerlo.
Perché l’omicidio di Luigi Calabresi questo ha di diverso rispetto a molte altre vicende simili. La campagna d’odio e disinformazione montata contro un leale servitore dello Stato, ingiustamente accusato di essere responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, ha pochi confronti nella storia di questo paese.

Alcune dinamiche – non nei dettagli perché è impossibile sovrapporre eventi storici così diversi tra di loro – ricordano la follia delle cacce alle streghe o le campagne d’odio contro gli ebrei. Anche in quei casi alcuni fanatici lanciarono accuse che vennero raccolte dalla massa, intimorita da oscure minacce e alla ricerca di un capro espiatorio.
Anche in questo caso, accanto ai molti ripetitori di slogan coniati da altri, troviamo cinici personaggi che sulle accuse contro Calabresi si sono costruiti una carriera, e volonterosi carnefici che si sono assunti il compito di eseguire una illegittima sentenza di morte che molti auspicavano a parole.
Ciò che più sconcerta è che nemmeno la cultura seppe fare diga contro quella marea montante. Furono ottocento gli intellettuali che firmarono un infame manifesto contro Calabresi pubblicato su L’Espresso il 13 giugno 1971. Alcuni di loro, per fortuna, in seguito trovarono il coraggio di scusarsene pubblicamente e con gli interessati.

Mario Calabresi, giornalista, ha la grande capacità di raccontare, attraverso i piccoli dettagli (“perché sono i particolari a tenere viva la memoria, i ricordi pieni, vissuti e non la prosopopea”), un pezzo di storia di questo paese. In tono sobrio (“ci vuole pudore quando si parla dei morti”), pacato, ma fermo.
Scrivendo, secondo l’insegnamento ricevuto dalla madre, Gemma, “per avere verità e giustizia e continuare a vivere rinnovando ogni giorno la memoria”.

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