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mercoledì 4 dicembre 2013

Il corvo di Orta

Ernesto Ragazzoni fu il più grande poeta ortese, anche per la sua capacità di interpretare quello spirito insieme romantico e ironico che gli abitanti di questo piccolo borgo cusiano hanno sempre avuto. Ho già fatto cenno ad alcune sue produzioni eccentriche, ma vale la pena ora di ritornare sui nostri passi e guardare di nuovo a questo personaggio, morto di cirrosi epatica tre giorni prima di compiere cinquant’anni, il 5 gennaio 1920.

Non aggiungo altro alla sua biografia, dal momento che una volta egli disse a un amico: 

«Quando non ci sarò più [...] se qualche amico di buona volontà vorrà raccogliere le mie poesie e i miei scritti, non potrò certo oppormici. Ma, te ne prego, se qualcuno farà la prefazione, bada che non mi prenda troppo sul serio. Non vorrei, per esempio, una biografia che dicesse solennemente: "E. R. nacque ai tanti del mese dell'anno tale, e morì... come se si trattasse di un uomo celebre qualunque. E se aggiungesse poi che studiai all'Istituto tecnico di Novara e che ebbi il diploma di ragioniere? Penso quanto sarebbe buffo di far sapere al mondo che quel mattacchione di Ragazzoni era ragioniere!»

Chi volesse approfondire la sua figura può peraltro trovare online un interessante saggio di Cesare Bermani, che di Ragazzoni è un esperto. 

Oltre che poeta, Ragazzoni fu un appassionato di occultismo e teorie teosofiche. Si racconta che durante un soggiorno in Inghilterra abbia assistito, nascosto in un bosco, a un rituale magico eseguito da una setta. Si trattava forse della “Golden Dawn” che ebbe molta influenza, non sempre positiva, su vari movimenti filosofici, politici e culturali del Novecento e di cui uno dei principali componenti fu il famigerato occultista Aleister Crowley.

Il fascino per le atmosfere misteriose non si esaurì, per nostra fortuna, in queste avventure notturne. Ragazzoni rimase affascinato da un poema che era stato introdotto in Europa nel 1859 dal “poeta maledetto” francese Charles Baudelaire.
Il testo era stato pubblicato nel febbraio 1845 sull’American Review a firma di un certo “Quarles”. Per qualche tempo l’autore di questo componimento rimase ignoto, finché, in un suntuoso appartamento di Waverley Place, di proprietà di miss Anna C. Lynch, un’autrice famosa che amava raccogliere intorno a sé il meglio della società letteraria di New York, un giovane scrittore fu invitato a recitare proprio quei versi ormai famosi, che avrebbero catapultato l’autore nell’Olimpo dei grandi della poesia anglosassone, accanto a Milton, Shelley e Keats.
Un silenzio elettrizzato afferrò i presenti, mentre ascoltavano rapiti la sua voce recitare 

Once upon a midnight dreary, while I pondered weak and weary…” 

Così cantò Edgar Allan Poe, apprezzato scrittore di racconti polizieschi e del terrore, e ognuno in quella sala comprese che solo lui poteva essere l’autore di “The Raven”. 
Dieci anni dopo la prematura morte di Poe, avvenuta in circostanze misteriose e mai chiarite, Baudelaire tradusse “The Raven” in francese facendolo conoscere nel vecchio continente. Ragazzoni s’innamorò di quel poema e scrisse una delle migliori traduzioni italiane, che diede alle stampe assieme ad altre sempre da Poe, nel 1896.

Non so dire dove sia nata l'idea di tradurre quei versi. Concedetemi di pensare che durante un ritorno invernale al suo “hortus conclusus”, osservando un corvo sui tetti di pietra del piccolo borgo di Orta, il poeta Ernesto Ragazzoni abbia deciso di mettere mano alla penna per scrivere: 

Una volta, a mezzanotte, mentre stanco e affaticato
meditavo sovra un raro, strano codice obliato,
e la testa grave e assorta — non reggevami piú su,
fui destato all’improvviso da un romore alla mia porta.
«Un viatore, un pellegrino, bussa — dissi — alla mia porta,
                          solo questo e nulla più!»

Oh, ricordo, era il dicembre e il riflesso sonnolento
dei tizzoni in agonia ricamava il pavimento.
Triste avevo invan l’aurora — chiesto e invano una virtù
a’ miei libri, per scordare la perduta mia Lenora,
la raggiante, santa vergine che in ciel chiamano Lenora
                          e qui nome or non ha più!

E il severo, vago, morbido, ondeggiare dei velluti
mi riempiva, penetrava di terrori sconosciuti!
tanto infine che, a far corta — quell’angoscia, m’alzai su
mormorando: «È un pellegrino che ha battuto alla mia porta,
un viatore o un pellegrino che ha battuto alla mia porta,
                          questo, e nulla, nulla più!».

Calmo allor, cacciate alfine quelle immagini confuse,
mossi un passo, e: «Signor — dissi — o signora, mille scuse!
ma vi giuro, tanto assorta — m’era l’anima e quassù
tanto piano, tanto lieve voi bussaste alla mia porta,
ch’io non sono ancor ben certo d’esser desto». Aprii la porta:
                          un gran buio, e nulla più!

Impietrito in quella tenebra, dubitoso, tutta un’ora
stetti, fosco, immerso in sogni che mortal non sognò ancora!
ma la notte non dié un segno — il silenzio pur non fu
rotto, e solo, solo un nome s’udì gemere: «Lenora!»
Io lo dissi, ed a sua volta rimandò l’eco: «Lenora!»
                          Solo questo e nulla più!

E rientrai! ma come pallido, triste in cor fino alla morte
esitavo, un nuovo strepito mi riscosse, e or fu sì forte
che davver, pensai, davvero — qualche arcano avvien quaggiù,
qualche arcan che mi conviene penetrar, qualche mistero!
Lasciam l’anima calmarsi, poi scrutiam questo mistero!
                          Sarà il vento e nulla più!

Qui dischiusi i vetri e torvo, — con gran strepito di penne,
grave, altero, irruppe un corvo — dell’età la più solenne:
ei non fece inchin di sorta — non fe’ cenno alcun, ma giù,
come un lord od una lady si diresse alla mia porta,
ad un busto di Minerva, proprio sopra alla mia porta,
                          scese, stette e nulla più.


3 commenti:

  1. Suggestiva l'idea del Corvo a Orta!

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  2. inquietantemente interessante ..... miao

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  3. Mitico! Le persone autoironiche hanno sempre tutta la mia stima.
    Spero che nessuno abbia mai fatto una premessa seria su di lui, ma ne dubito...

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